La tragica paternità del Conte Ugolino
"Poscia, più che 'l dolor, poté il digiuno "(If. XXXIII v. 75 ) è il verso con il quale il Conte Ugolino della Gherardesca conclude la narrazione della terribile agonia che i suoi figli ed egli stesso subirono.
Dante, durante il suo viaggio ultraterreno, lo incontra mentre è immerso fino al collo nel ghiaccio del Cocito, come tutte le anime dannate di chi ha tradito la patria.
"La bocca sollevò dal fiero pasto": a Dante si presenta la terrificante immagine di due dannati conficcati in una buca, con uno dei due intento a divorare il cranio dell'altro.
In questo sfondo di estrema violenza, uno dei dannati è disposto a parlare affinché Dante possa riferire, nel mondo dei vivi, la tremenda fine cui fu sottoposto e perché il suo racconto rechi infamia al responsabile di tanta disumanità. Egli è il Conte Ugolino, e l'altro dannato, di cui sta rodendo il capo, è l'Arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, colui che lo aveva accusato di tradimento e imprigionato, con due figli e due nipoti, nella Torre della Muda a Pisa.
Ugolino racconta di un sogno premonitore: l'Arcivescovo Ruggieri, insieme ad altri Pisani esponenti del partito ghibellino, insegue, in una battuta di caccia, un lupo e i suoi lupacchiotti, i quali, stanchi per l'inseguimento,stanno per essere ghermiti da cagne fameliche.
Risvegliatosi, sente i figli chiedere del pane.
Il triste presagio si avvera: nell'ora usuale del pasto si sente chiudere l'uscio della torre. Chiaro segnale per i prigionieri della morte che è stata loro destinata.
Consunti dalla fame, muoiono uno dopo l'altro i figli e i nipoti. Rimasto solo, Ugolino brancola per due giorni sui loro corpi , prima di morire a sua volta.
Il sogno premonitore, le implorazioni dei figli, la fame e poi la morte costituiscono un crescendo che culmina nell'inquietante ambiguità delle ultime parole: "Poscia, più che 'l dolor, potè il digiuno".
Parole che indicano che la morte sia sopraggiunta a causa della fame o che possono autorizzare l'ipotesi della tecnofagia, quindi il padre che mangia i figli?
Ambedue le letture sono legittimate dalla struttura formale del testo, né esistono sicure attestazioni storiche a favore dell'una o dell'altra.
A vantaggio della prima interpretazione, il fatto che, quando nel marzo del 1289 la prigione fu aperta, i prigionieri furono trovati morti da poco e, presumibilmente, insieme, mentre l'antropofagia avrebbe potuto mantenere in vita il Conte più a lungo e, soprattutto, avrebbe rivelato tracce evidenti sui cadaveri.
Di contro esiste una cronaca pisana, contemporanea agli eventi, in cui si legge: "E così morirono di fame tutti e cinque...e quivi si trovò che l'uno mangiò delle carni dell'altro".
E' fuori dubbio che questa lettura aggiunge un tassello al motivo del mangiare/essere mangiati che percorre tutto l'episodio, anche se il cannibalismo necrofilo di Ugolino non sembra coerente con il suo eroico profilo di padre protettore ma impotente.
Indubbiamente la soluzione macabra e raccapricciante ci spaventa, ma appare in perfetta sintonia con il tema del cibo, proprio di tutto il canto, e con il gesto simbolico, da parte di Ugolino, del mangiarsi le mani per disperazione ("ambo le mani per lo dolor mi morsi") e, soprattutto, con i gesti voraci e bestiali con i quali la vicenda si apre e si chiude ( "La bocca sollevò dal fiero pasto" e " riprese il teschio misero co' denti/ che furo a l'osso, come di un can, forti".
Per noi moderni, quello dell'antropofagia resta un tabù che origina sentimenti di orrore e di rifiuto, ma forse nel Medioevo, come è possibile ricavare da numerose testimonianze, il cannibalismo era ritenuto un atto orribile ma non infrequente.
Ma cosa pensava Dante, o meglio cosa ha voluto che noi pensassimo?
La risposta parrebbe pendere a favore della tesi del cannibalismo, in quanto tanti sono i particolari descrittivi che convergono in questa direzione, dal gesto iniziale di Ugolino che solleva la bocca dal "fiero pasto" a quello finale per cui addenta il cranio dell'Arcivescovo.
Evidente allusione al cannibalismo si può evincere dal verso in cui il Conte si morde le mani per la disperazione e i figli si offrono come cibo "Padre, assai ci fia men doglia/ se tu mangi di noi. Tu ne vestisti/ queste misere carni, e tu le spoglia"pensando che il padre lo facesse per "voglia di manicar".
Dante certamente non si spinge ad affermare esplicitamente il fatto, ma lo insinua, con reticenza al fine di accrescerne l'orrore e il mistero.