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Supercarcere Fornelli - I raggi |
Tanti sono stati gli appelli, negli ultimi anni, a prendere coscienza di uno stato di fatto che lede i diritti fondamentali della persona: lo stato di emergenza e degrado degli Istituti di pena, dove si vìola sistematicamente l'articolo 27 della nostra Costituzione, che prevede per il carcere, non lo scopo punitivo, ma rieducativo dei detenuti.
In tale condizione, il carcere può fungere da struttura rieducativa? In buona sostanza, il carcere serve a qualcosa, oppure a nulla?
Nel luglio 1975 viene approvata, in Italia, la legge che orienta le modalità dell'esecuzione della pena in funzione di premi e riconoscimenti nei confronti del detenuto, previo accertamento della sua partecipazione all'intervento rieducativo.
Sotto gli occhi di tutti, però, la metamorfosi della reclusione da punizione a rieducazione non si è verificata.
Possiamo, invece, dire che il carcere, così com'è, non rieduca, anzi forma, istruisce ed educa il criminale di domani?
Amicizie intrecciate all' interno dell'istituto, sovraffollamento, violenza gratuita, assenza di personale qualificato con preparazione ed esperienza.
Arianna Giunti, giornalista freelance per il gruppo L' Espresso, autrice dell' inchiesta "La cella liscia. Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane", ha ricostruito aspetti del sistema carcerario italiano, fatto di violenze e soprusi, e, soprattutto, di una generale indifferenza per il fallimento della funzione rieducativa della pena.
In gergo si chiama "cella liscia", perché è completamente vuota, senza brande, senza sanitari,
Qui vengono confinati i detenuti "disubbidienti" o quelli colti da crisi isteriche o depressive.
Sebastiano, racconta la Giunti, ex detenuto a San Vittore per piccoli reati di droga, in carcere si disintossica e impara a fare il giardiniere. Dopo la scarcerazione, trova lavoro come pony express, ma viene colto da crisi di panico quando sente per strada le sirene delle volanti. Avrebbe dovuto iniziare un percorso terapeutico, ma non può sostenerlo economicamente. Così lo hanno licenziato.
Questa è solo una delle tante storie.
I detenuti italiani, allora, sono condannati a vita, condannati a non ritrovare una normalità. La recidiva è un rischio altissimo.
A decretare un ulteriore fallimento delle nostre politiche carcerarie, è una nuova e continua domanda di penalità.
Affermazioni di questo tenore si sentono da più parti: "...far provare loro un po' dello stesso dolore delle loro vittime...il carcere ridona equilibrio a situazioni cui la giustizia non pone rimedio con pene giuste e certe...".
Fortemente avvertita è questa esigenza di pena, si direbbe quasi retributiva e afflittiva.
Da che cosa può anche prendere origine? Dall'insicurezza sociale, dalla paura della diffusa criminalità?
Da qui si innesca un effetto a catena, che trascina all'ansia collettiva, all'antagonismo, all'intolleranza, alla violenza e ad un barbaro "dai all'untore".