domenica 28 giugno 2015

Malattia mentale e processo creativo

Vincent Van Gogh "Campo di grano con volo di corvi" 1890



Esiste una connessione fra malattia mentale e processo creativo?
In che rapporto e fino a che punto genio e follia possono coesistere?


Non si può negare che il legame fra arte e patologia sia un percorso di ricerca sempre aperto, se consideriamo che da oltre due secoli scienziati, neurologi, psichiatri e filosofi mostrano una marcata attenzione per le espressioni artistiche in ogni loro manifestazione.

Accostare il genio creativo alla follia distruttiva è cosa ardita: il primo crea bellezza, il secondo genera orrore.

Può esistere un punto di contatto fra due individualità così diverse?

L'anello di congiunzione risiede nella convinzione di entrambi che la loro opera sia una creazione.
Un folle assassino, ad esempio, considera i suoi omicidi il frutto della sua creatività distorta, una forma d'arte perversa che soddisfa, in maniera patologica, il bisogno di creare qualcosa di immortale.
Non è un caso se gli assassini, in prigione, quando non possono più uccidere, si dedichino all'arte, soprattutto alla pittura e alla scrittura.

Cesare Lombroso, padre dell'Antropologia Criminale, già nel 1864 scriveva nel suo saggio "Genio e follia": "E chi alla lettura di queste belle pagine può dubitare che vi siano casi in cui la pazzia dà agli intelletti volgari un lievito sublime che li solleva dal livello comune?" .

Secondo Lombroso esiste un forte nesso fra genialità, creatività e combinazioni psicobiologiche borderline, supportato da una gran quantità di dati biografici relativi a "molti uomini d'ingegno": "Ed infatti moltissimi uomini d'ingegno ebbero parenti o figliuoli epilettici, idioti o maniaci[...] Né fu raro il caso in cui quelle cause, pur sì frequenti, dell'alienazioni, che sono le malattie e i traumi del capo, mutarono, invece, in uomo di genio un'esistenza più che volgare. Vico cadde da una scala altissima, nell'infanzia, e n'ebbe fratturato il parietale destro. Gratry, mediocre cantore, da prima, divenne famoso maestro dopo che una trave gli fracassava la testa".

Stando all'opinione di Lombroso, la personalità artistica è particolarmente propensa al crimine, come  scrive nel suo testo cardine "L'Uomo delinquente".





Lo psichiatra francese Edouard Lefort pubblica nel 1892 "Le type criminal d'apres les savant et les artistes (Il tipo criminale secondo gli scienziati e gli artisti).

Lo scienziato, passando in rassegna la riproduzione di famosi quadri della scuola italiana, fiamminga, spagnola, francese, rileva che nell'iconografia religiosa i violenti, gli omicidi, i carnefici, i dannati hanno fisionomie ripugnanti o brutali, che riprendono le caratteristiche del tipo criminale: testa grossa, occhi piccoli, mascelle grandi e quadrate, fronte stretta, zigomi sporgenti, tanto da affermare che "il tipo criminale intuito da Lombroso ha un perfetto riscontro nell'opera artistica di molti secoli".

Enrico Ferri, appartenente alla "scuola lombrosiana", sottolinea nel 1896 il contatto immediato fra scrittori, poeti ,pittori ed il mistero del male: "La verità è che il crimine, nei suoi due aspetti, colui che lo compie, colui che lo subisce, è dolore: l'artista che possiede la sensibilità cosmica di percepire e raccogliere, ne è investito".

Per Ferri sono la letteratura e il dramma ad aver prestato maggiore attenzione ai "tipi criminali".

Riferimento obbligato è William Shakespeare: "Macbeth è il tipo completo del delinquente nato, ramo doloroso e mostruoso che sorge dal tronco patologico della nevrosi epilettica e criminale" e "Amleto, invece, è un tipo genialmente delineato di delinquente pazzo, in una di quelle forme lucide o ragionamenti che sono lontani, certo, dall'osservazione comune", mentre Otello identifica il delinquente passionale.

L'interesse per la relazione arte-patologia hanno segnato a lungo i percorsi della scuola criminologica italiana, tant'è che il fisiologo Mariano Patrizi scrive un saggio dominato da una lettura patogenetica di Giacomo Leopardi, ed uno su Caravaggio, esempio di "pittore criminale".

Lo sviluppo delle neuroscienze ha ridato linfa vitale allo studio neurologico della creatività artistica.
Gli esiti della ricerca sembrano confermare la presenza di fattori neurologici comuni alla genesi creativa e ad alcune forme di sofferenza psichica.

Andreas Fink, neuroscienziato dell'Università di Graz: "Sulla base di questi risultati potremo concludere che i medesimi tratti di personalità e cognitivi possono essere piuttosto simili fra le persone creative e persone sofferenti di forme moderate di disturbi mentali[...]si può ipotizzare che tanto gli individui predisposti alla psicosi che quelli altamente creativi, includono nei loro processi mentali molti più stimoli e categorie di quanto non facciano le persone meno creative, il che potrebbe essere visto anche come una sorta di interruzione dei meccanismi di filtro, che sono preposti a bloccare gli stimoli per facilitare l'efficienza del processo di elaborazione delle informazioni". In accordo con ciò "individui altamente creativi e persone sofferenti di patologie psichiche appaiono contraddistinti in parte dall'abilità di percepire e descrivere ciò che rimane nascosto alla vista degli altri".

Vale la pena ricordare che nel 1999 il neurologo britannico Semir Zeki, introduce il termine neuroestetica, sostenendo un possibile sviluppo di un campo di conoscenza riferita all'aspetto biologico dell'esperienza estetica.


Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco, analizza in un saggio del 1922 "Genio e follia" il rapporto esistente tra la schizofrenia e la genialità, proponendosi di capire perché, nelle espressioni più alte, arte e follia coincidono.



Jaspers analizzò dettagliatamente la vita di Van Gogh al fine di fornire un'immagine della coesistenza di pazzia e genialità nella vita di questo artista.

Il 1888 coincide con l'inizio della malattia: le allucinazioni insopportabili si verificano in concomitanza con il "furor" creativo dell'artista che lavora convulsamente alle proprie tele.

I quadri rappresentano paesaggi dove tutto è tormento: la terra pare sollevarsi come onde, gli alberi sembrano fiamme, il cielo pulsa, le tinte sono ardenti, crude ed intense.

Nello stadio finale della malattia che avrebbe ben presto condotto l'artista al suicidio, i quadri sono dipinti con colori ancora più stridenti, aumentano gli errori prospettici.

Con l'eccitazione pare venir meno il controllo interiore, la tecnica diventa più grossolana.
In questo periodo Van Gogh scrive: "Mi sento alla fine, alla resa dei conti. E' il mio destino, devo accettarlo, non cambierà...il futuro è oscuro, non vedo un avvenire felice.

Anche in letteratura abbiamo casi di "geni folli". Edgar Allan Poe presenta una dissociazione mentale alterata dall'uso di sostanze stupefacenti , come il laudano.



Poe soffre di uno stato di alterazione psichica dovuto ad un trauma infantile: la morte di tisi della madre.

Maria Bonaparte, psicoanalista e scrittrice, nella sua lettura psicoanalitica di Poe, sostiene che l'artista abbia tentato invano di sfuggire al ricordo della malattia e della morte della madre ma "per quanto tirasse la catena non riusciva a spezzarla".

Poe sposa una donna malata di tisi, ma quando la moglie comincia ad assomigliare troppo alla madre defunta, egli viene colto da terrore e si rifugia nella scrittura. L'artista si crea un proprio mondo visionario in cui domina la morte, svelamento dell'inganno della realtà.

"Gli uomini mi hanno definito pazzo, ma non è ancora ben chiaro se la pazzia sia o non sia la più alta forma di intelligenza e se le manifestazioni più meravigliose e più profonde dell'ingegno umano non nascano da una deformazione morbosa del pensiero, da aspetti mentali esaltati a spese dell'intelletto normale ( E.A.Poe).









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