lunedì 21 dicembre 2015

L'ho visto con i miei occhi!



"L'ho visto con i miei occhi". Non basta.

La memoria è fallace, non è né una macchina fotografica né un videoregistratore.
I testimoni possono sbagliare, anche se spesso non mentono.

Non è possibile, quindi, credere ad un testimone oculare "al di là di ogni ragionevole dubbio", perché i meccanismi con cui vengono elaborati i ricordi,possono trarre in inganno.

Quando una persona siede sul banco dei testimoni e riferisce su quanto in prima persona ha vissuto, presenta una sua personale rappresentazione della verità, più che la verità stessa.

Nel momento in cui si è chiamati a riferire di quanto si è stati testimoni, si innesca un meccanismo di recupero delle informazioni, immagazzinate in memoria, relative all'evento, e di rielaborazione delle stesse.

Il contenuto della deposizione, quindi, non può essere considerato una riproduzione perfetta e certa di un fatto e, pertanto, ogni testimonianza viene a configurarsi come una deformazione della realtà.

In ambito penale, la testimonianza è un mezzo di prova che verte ad esaminare il teste circa i fatti che costituiscono oggetto di prova.

Prima della nascita della psicologia giudiziaria, i giudici potevano avvalersi non soltanto di regole legali, filosofiche e religiose, ma anche dell'astrologia giudiziaria e, soprattutto, della metoscopia e della fisiognomica.

La metoscopia intendeva valutare caratteristiche e inclinazioni di un individuo attraverso la lettura delle linee e di altri segni presenti sulla fronte.

La fisiognomica, invece,analizzava i tratti somatici.Anche il ricorso alla tortura era considerato uno strumento efficace ai fini dell'analisi della testimonianza.

Nell'ambito scientifico della psicologia della testimonianza si dibatte da lungo tempo sul ruolo della memoria e come questa possa produrre falsi ricordi.

 Quando un testimone può essere attendibile?

Una testimonianza può essere considerata attendibile se esiste una corrispondenza tra ciò che viene raccontato e ciò che è realmente accaduto.

La testimonianza dipende, in primo luogo, dalla memoria, il cui elemento cruciale è l'accuratezza, vale a dire la corrispondenza tra il contenuto dell'evento e il contenuto della memoria.

Per definire attendibile un testimone e accurato un ricordo, è necessario considerare alcuni fattori , quali l'intenzionalità a ricordare nel momento in cui si assiste all'evento, l'interpretazione data all'evento, il tempo trascorso e le inferenze che il testimone subisce tra il momento in cui assiste all'episodio e il momento in cui è chiamato a testimoniare.

Bisogna anche tenere in considerazione il ruolo che il soggetto ha ricoperto nell'evento, cioè se è stato autore o vittima, o solo testimone.

La memoria, o meglio la funzione mnestica non è, come abbiamo avuto modo di rilevare, un processo automatico, ma un processo concatenato ad altri fattori, sia cognitivi che emotivi,
 Si evince che la testimonianza possiede una parte di verità oggettiva, e un'altra parte di costruzioni soggettive che si uniscono o sovrappongono in maniera conscia o inconscia.
Ciò può avvenire volontariamente in un soggetto menzognero o involontariamente, quando il fatto narrato è distorto da suggestioni, condizionamenti e da meccanismi psicologici di difesa.

La deposizione di un testimone deve essere valutata sotto il profilo della:

  • affidabilità - si riferisce a quanto effettivamente percepito dai sensi e codificato nella memoria.
  • veridicità - presuppone l'esclusione di manipolazioni della narrazione rispetto a quanto effettivamente decodificato nella memoria.
Tre interrogativi su "gli scherzi della memoria"

E se Olindo e Rosa, ritenuti i mostri della strage di Erba fossero innocenti?

L'unico superstite, Mario Frigerio, svegliatosi dal coma, spiega con voce flebile e impastata, quasi incomprensibile, che l'aggressore è un uomo di corporatura robusta, con tanti capelli corti neri, carnagione olivastra, occhi scuri, senza baffi.
Nessun accenno a Rosa e Olindo, che il Frigerio conosce benissimo.
Solo in un secondo tempo, Frigerio punta il dito contro Olindo che riconosce, senza ombra di dubbio, come la bestia, il carnefice.
Si dà il caso che Olindo sia di carnagione chiara, con occhi chiari e non scuri e non con capelli neri.

E Anna Maria Franzoni ha davvero completamente rimosso l'assassinio del figlio o mente in maniera perfetta?

E Veronica Panarello, madre del piccolo Loris:"Non ricordo nulla ma non l'ho ucciso io".

Amnesie post traumatiche o linee difensive?

martedì 15 dicembre 2015

I MILIZIANI DI CRISTO

                                     







                                                                        


Atrocità inimmaginabili che hanno insanguinato l’umanità e che tuttora seminano morte, quelle perpetrate dalla religione e, soprattutto, dal Cristianesimo e dall’Islam.
Due religioni responsabili di volere imporre la loro fede con qualsiasi mezzo, anche con la guerra santa, ossimoro di pessimo gusto.

E il messaggio di Cristo? Quel messaggio di fratellanza e pace dove prende posto nella storia dei crimini del Cristianesimo?

Non è possibile dimenticare o negare secoli di efferatezze contro l’Umanità: Crociate, persecuzione e sterminio di “streghe” ed “eretici”, di ebrei, di scienziati…

Nel 380 d.C. con l’Editto di Tessalonica, il Cristianesimo diventa religione ufficiale dell’Impero.
Da questo momento inizia la persecuzione dei pagani, la distruzione dei loro luoghi di culto, il divieto di celebrazione di riti non cristiani.
Le progredite culture greca, ellenistica e romana vengono martoriate, eliminate e soppiantate da una civiltà cristiana violenta e intollerante.
Proprio in questo clima di terrore avviene uno dei più crudeli femminicidi di matrice cristiana della storia.
Vittima è Ipazia di Alessandria, filosofa e scienziata, uccisa, smembrata e, infine, bruciata da un gruppo di fanatici cristiani.


Non è possibile riportare la storia di tutte le stragi, le violenze, le torture di una dottrina scellerata e superstiziosa.

Solo qualche esempio


Dal 782 al 1391 vengono trucidati: 4550 Sassoni, 5500 Ebrei, 2700 prigionieri di guerra musulmani, 25000 “eretici” catari.
E non si può tralasciare ciò che avvenne durante le Crociate.
Considerando solo la prima Crociata, quando fu presa Gerusalemme, furono trucidati dai Cristiani 60000 persone, senza distinzione tra musulmani, Ebrei, donne e bambini.

Il fiore all’occhiello della Chiesa fu ,però, l’istituzione della Santa Inquisizione, ufficialmente avvenuta in Spagna nel 1478, ma già operante in altri Paesi d’Europa.
                                                                                                     

Centinaia di migliaia le persone arse vive sul rogo, dopo aver subito, con le torture più varie, l’estorsione di confessioni.

Ancora qualche esempio



·         Annodamento: i capelli delle “streghe” venivano attorcigliati attorno ad un bastone che ruotava tanto velocemente da togliere lo scalpo, lasciando il cranio nudo.

·         Cremagliera: caviglie e polsi della vittima venivano legati ad una tavola. Sulla tavola passavano dei rulli che slogavano tutte le articolazioni.

·         Mastectomia: i seni venivano strappati con tenaglie arroventate.

·         Pera: strumento utilizzato per via orale, nel retto o nella vagina, si apriva con un giro di vite da un minimo ad un massimo.

·         Sega: metodo applicato più spesso agli omosessuali. Il condannato veniva appeso a testa in giù con le gambe divaricate e con una sega veniva tagliato in due verticalmente.

·         Garrota: la vittima veniva fissata ad un palo con un anello di ferro che veniva stretto fino alla rottura delle ossa vertebrali.

·       Impalamento: un palo aguzzo veniva inserito nel retto e forzato fino alla fuoriuscita dalla testa o dalla gola.


Non sono neanche da dimenticare i veri e propri genocidi messi in atto nella “cristianizzazione” del Sudamerica e le stragi dei Valdesi, 4740 morti fra il 1545 e il 1561; il massacro di 10000 Ugonotti in Francia nel 1572 e le migliaia di Ebrei trucidati perché accusati di deicidio.
Infine, ed è cronaca di oggi, scandali e pedofilia, insabbiati dalle gerarchie ecclesiastiche, coinvolte spesso direttamente nelle vicende.


domenica 18 ottobre 2015

MA NON E' L'ETA' DELL'ORO



                     Il suicidio infantile e degli adolescenti


Il suicidio giovanile si conferma in Europa, la seconda causa di morte tra gli adolescenti e la prima tra ragazzi tra i venticinque e trentaquattro anni.

Alcuni soffrono di gravi disturbi psichiatrici, altri di dipendenza da sostanze stupefacenti e alcol, ma la stragrande maggioranza è costituita da giovani che soffrono di un'infelicità profonda.

Il fenomeno suicidario infantile e giovanile non è figlio dei nostri tempi.

In Francia, nel 1839, si contarono venti suicidi di fanciulli di età inferiore ai 16 anni e 132 di giovani fra i 16 e 21 anni.
Nel 1908, i suicidi di fanciulli al di sotto dei 16 anni furono 85 e 447 quelli di giovani dai 16 ai 21 anni.
Fra gli 85 suicidi al di sotto dei 16 anni, 33 erano stati compiuti da bambini di 14 anni, 4 da bambini di 13 anni, 2 da bambini di 9 anni, 1 da un bambino di 8, 1 da un bambino di 6 anni.
In Italia, nel decennio 1896-1905, i suicidi di giovani tra i 15 e i 19 anni, furono in media 150 all'anno.
Salirono a 179 nel 1906 e a 201 nel 1907.
I suicidi al di sotto dei 15 anni furono in media 8 all'anno nel decennio 1896-1905, salirono a 11 nel 1906 e a 14 nel 1907.
Negli altri Paesi Europei le cifre sono simili.

In quella che è considerata dalla maggior parte degli adulti un'età felice o incosciente, si annidano tutte le passioni e quel male esistenziale, ritenuto prerogativa esclusiva dell'età matura.

La depressione gioca un ruolo decisivo nei comportamenti suicidari e si configurano come fattori di rischio:

  • pesanti delusioni nelle prime prime relazioni affettive e amorose
  • incapacità di credere in se stessi e negli altri
  • difficoltà poste da una vita sempre più caratterizzata da egoismo, ricerca dell'apparenza, materialismo, consumismo
  • vicende familiari traumatiche (separazioni, divorzi, abbandono)
  • sensazione di solitudine, tristezza, impotenza e inutilità
  • malattie fisiche e neuropsichiatriche
  • lutti
  • fallimento scolastico


Il fattore sociale

E' difficile per un giovane non tenere conto del giudizio dei coetanei che, quando porta all'emarginazione,genera grande sofferenza, origine di atteggiamenti di chiusura e ripiegamento, o di atti impulsivi e scelte inconsuete.
Nel passaggio dall'identità "fanciulla" a quella più matura, si è particolarmente  fragili e si cerca l'approvazione del gruppo che può rivelarsi assente o ostile. Il bullismo è, infatti, la prima causa di suicidio tra i banchi di scuola.

La persecuzione del branco corre anche sulla rete  


Quante volte Ask.fm, l'ormai famigerato social network, basato su un meccanismo di domande e risposte, è stato sotto accusa per suicidi di minori?
Secondo i dati del laboratorio di Ricerca Socio Economica della Link Campus University, in Italia la metà dei giovani tra i 17 e i 19 anni ritiene Ask.fm un social "pericoloso", ma circa il 14% dei ragazzi lo utilizza comunque, e il 10% di questi lo usa per offendere qualcuno.
Sia in Italia che all'estero si contano vari casi di suicidio, dopo aver ricevuto insulti e minacce via web.

Anche i web game possono inserirsi fra le cause di suicidio dei giovanissimi

Da non dimenticare il caso di Pokemon Rosso,immesso sul mercato in Giappone nel 1997.
L'uscita del game fu accompagnata da una serie di denunce di malesseri fisici di bambini tra i 7 e i 12 anni che lo avevano utilizzato.
A quanto pare, a creare malesseri e stato confusionale sarebbe stato, in una fase del gioco, l'ingresso in una specifica area del game, la città di Lavandonia (da qui Sindrome di Lavandonia).

Questa zona era accompagnata da una colonna sonora cupa e ripetitiva, dall'effetto ipnotico.
L'ipotesi fu che quella colonna utilizzasse dei toni binaturali, ovvero note non direttamente percepibili dall'orecchio, ma dal cervello. La composizione ossessiva e la ripetizione compulsiva avrebbe creato uno stato ansioso nel giocatore.
I bambini che giocavano al game per diverse ore, utilizzando le cuffie,lamentavano mal di testa, forti emicranie, fuoriuscita di sangue dal naso, stato confusionale, disturbi psicologici e fisiologici che, in alcuni casi, sembra abbiano portato alla morte, anche per suicidio.

Vademecum per i genitori

Segni premonitori di una predisposizione al suicidio:

  • Cambiamento delle abitudini alimentari o del ritmo del sonno
  • Allontanamento dalla famiglia, dagli amici e dalle consuete attività
  • Azioni violente, comportamenti di ribellione, tendenza alla fuga
  • Uso di alcol e droghe
  • Scarsa cura della propria persona
  • Persistente stato di noia, difficoltà di concentrazione, diminuzione della resa a scuola
  • Disturbi quali dolori addominali, mal di testa, affaticamento
  • Perdita di interesse per le attività di svago
  • Insofferenza nei confronti di elogi e riconoscimenti

                    La giovinezza non è l'età dell'oro!




          Piera Denaro







mercoledì 7 ottobre 2015

IN DUE E' MEGLIO


Il killer ammaliatore e la "folie a deux"




Com'è possibile che donne si innamorino di un assassino, di un uomo simbolo di violenza?

Stasi, Parolisi, Sollecito, Izzo, Vallanzasca, Maniero, tutti destinatari di centinaia di lettere d'amore.

Non è un mistero che negli Stati Uniti, il condannato a morte attragga il sesso femminile e che le donne inglesi sognino una storia d'amore, anche a distanza, con stupratori e omicidi.

Il fenomeno è supportato da esiti scientifici.


Durante una ricerca, il cervello di donne single è stato scannerizzato mentre venivano loro mostrate foto maschili: i volti più minacciosi erano percepiti come i più attraenti, in quanto attivavano le aree del cervello deputate alla valutazione del rischio.

Ce lo spiega il darwinismo il successo evolutivo di questo istinto primordiale.

Quando non esisteva alcuna legge, l'uomo forte e violento era quello più adatto a fornire protezione alla donna. Anche se oggi la società ha posto ai margini il violento, l'istinto primordiale è sopravvissuto.

Come spiegare questo fenomeno sociale in costante aumento? Smania di protagonismo? Sindrome della crocerossina? Incapacità di relazionarsi sessualmente con l'altro, come prodotto di un vissuto emotivo negativo esperito con la figura paterna?Disturbo della sfera affettiva?

Le serial killer groupies sono donne che hanno spesso vissuto in un contesto familiare disfunzionale, dove i loro bisogni emotivi sono rimasti inascoltati o repressi, a causa della presenza di un padre violento o abusante e una madre passiva e remissiva.
Per alcune donne, il serial killer, condannato a morte, rappresenta l'uomo ideale perché una relazione con lui è fonte di sicurezza, in quanto da dietro le sbarre non potrà far loro del male.
Il sentimento risulta idealizzato, puro e non necessita di un contatto fisico.

Sheila Isenberg nel suo libro Women who love men kill tratta la tematica, mettendo in relazione la scelta di un partner problematico con una rigida educazione religiosa,politica e sessuale.
Sono le donne con scarsa autostima, bisognose di essere amate come non lo sono state mai nel periodo infantile, quelle soggette a preferenze sessuali devianti di tipo predatorio.

Il termine scientifico  ibristofilia, attrazione morbosa verso coloro che hanno compiuto crimini efferati ,viene coniato e utilizzato dallo psicosessuologo John Money nel suo Lovemaps: clinical concepts of sexual/erotic health and pathology, paraphilia in childhood, adolescence and maturity.

Da ricordare il caso di Carol Anne Boone, della scrittrice Sondra London, dell'editorialista Doreen Lioy che sposa Richard Ramirez, detenuto nel braccio della morte.

Caso di particolare interesse è quello di Veronica Compton, attrice e drammaturga che, nel 1980, instaura un rapporto epistolare con Kenneth Bianchi, al fine di fargli valutare una sceneggiatura scritta da lei su un serial killer donna.
Bianchi, da perfetto manipolatore mentale, convince la Compton a partecipare ad un piano criminale che lo avrebbe dovuto scagionare dalle accuse.
La Compton viene condannata all'ergastolo e Bianchi sposa un'altra donna.

Il primo caso registrato della sindrome della Groupie del serial killer è datato 1895, quando William Henry Theodore Durrant, detto il Demone di Belfry fu oggetto delle attenzioni di diverse donne durante il processo.

La medesima parafilia potrebbe avere un ruolo essenziale nella creazione di coppie di serial killer costituite da un uomo manipolatore e da una donna sottomessa, attratta dalla virilità emanata dall'assassino.

Alla base è la sindrome chiamata in psichiatria Disturbo psicotico condiviso, più conosciuta come folie a deux.

Il primo a descrivere questa particolare condizione fu Legrand du Saulle nel 1871.

Nella coppia la personalità dominante, l'elemento attivo, l'induttore impone la propria autorità sull'indotto, sulla personalità  sottomessa, soggetto meno intelligente e più suggestionabile.

Perché si verifichi la follia a due sono necessarie altre due condizioni descritte da Lasegue e Falret:
  • I due soggetti della coppia devono trascorrere un certo periodo della loro vita in uno stesso ambiente, condividendo modo di vivere e interessi.
  • Il delirio deve basarsi su attività concrete e mantenersi nella sfera della realtà.
La follia a due può essere consumata da coppia uomo/donna ( il legame fra i due soggetti è quasi sempre di tipo erotico-sentimentale), coppia uomo/uomo ( in maggioranza assoluta, non necessariamente soggetti omosessuali), coppia donna/donna (il caso più raro, la natura del legame è sessuale).
Estremamente rari sono i casi di coppia madre/figlio e padre/figlia.

Nel Nord Italia, un caso di follia a due ha visto protagonisti Wolfang Abel e Marco Furlan, due ragazzi appartenenti all'alta borghesia.

Dal 1977 al 1984 uccidono ventisette persone, utilizzando come firma la sigla Ludwig, per rivendicare l'omicidio di omosessuali, prostitute, vagabondi, drogati, considerati dai due assassini rifiuti della società, moralmente indegni, socialmente dannosi.





PIERA DENARO





lunedì 27 luglio 2015

IL PASTO CANNIBALICO




IL termine cannibale, utilizzato per definire il comportamento di tutte quelle specie che si cibano di consimili, deriva da "canniba", vocabolo con cui gli indigeni americani delle Piccole Antille designavano certi popoli feroci che, forse, mangiavano carne umana.
Cristoforo Colombo cita questo popolo, chiamandolo "Canibales", puntualizzando di non averlo mai incontrato ma di averne avuto notizia.

Il pensiero di mangiare la carne di altri esseri umani è terribilmente disgustoso, ma non per tutti.

La cultura ci ha spinto, nel corso del tempo, a rifiutare questo comportamento, ma in alcuni casi la "barriera" crolla e l'impulso a nutrirci di un nostro simile può riemergere, come mezzo per dominare l'altro e impossessarsi della sua energia vitale, o addirittura per entrarne in simbiosi.


Tipologie di cannibalismo
  • Cannibalismo guerriero: perpetrato a danno dei vinti in guerra.
  • Cannibalismo religioso: il corpo delle vittime viene consumato in un pasto rituale.
  • Cannibalismo per indigenza: la consumazione è circoscritta alle parti muscolari.
  • Cannibalismo per condanna: smembramento pubblico e consumazione del corpo del reo.
  • Cannibalismo culinario: tipico dei popoli poveri e circoscritto.
  • Cannibalismo per vendetta:riscontrabile in popolazioni in cui è fortemente sentito il culto della vendetta.
  • Cannibalismo psicopatologico: agito da soggetti devianti, spesso in forma seriale. Generalmente la matrice è di natura sessuale. I soggetti, incapaci di rapportarsi con l'individuo sessualmente desiderato, lo uccidono e ne divorano le parti, oggetto di desiderio.


Le radici

In psicoanalisi, mangiare un proprio simile significa possederlo affettivamente. L'atto è riconducibile alla fase sadico-orale, in cui il bambino conosce il mondo attraverso la bocca e ricerca l'appagamento, attaccandosi al seno della madre.
Nel cannibalismo psicopatologico, tale dinamica è da associare ad una incapacità relazionale che sfocia nell'incorporazione dell'altro, come unica via al possesso affettivo.

Il cannibalismo oggi

Il cannibalismo oggi non assume caratteri culturali come in passato,ma viene considerato una devianza mentale caratterizzata da disturbi ossessivo-compulsivi.

"L'istinto pulsionale del consumo cannibalico costituisce nell'individuo il simbolo dell'interiorizzazione dell'oggetto del desiderio sessuale e la particolarità di questo impulso è proprio che la sua forma patologica porta al cannibalismo criminale.
In molti serial killer questo tipo di comportamento patologico e irrefrenabile ha la stessa radice di un qualsiasi comportamento affettivo che, mentre nella persona sana di mente si esaurisce in comune segno di affetto, come un bacio o un piccolo morso, in un individuo con disordini psicologici, diventa un fatto da vivere appieno"( Sirri, Il cannibalismo nella contemporaneità).


Il cannibalismo può essere analizzato anche dal punto di vista biologico. Recenti studi, come quello di Joel Norris, ipotizzano che una disfunzione dell'ipotalamo, destabilizzerebbe il sistema ormonale, alterando la capacità del cervello di misurare le emozioni.




Casi di cannibalismo di ieri e di oggi


Il caso più antico riguarda un Homo Erectus, vissuto circa un milione di anni fa nell'attuale Tanzania.
Gli antropologi Donald Johanson e Desmond Clark hanno individuato sugli zigomi, sulla mascella e su varie ossa, alcuni segni di taglio effettuati con utensili di pietra che indicano come la pelle sia stata rimossa per essere, probabilmente, mangiata.

Altri ritrovamenti archeologici confermano la presenza di comportamenti antropofagi nella preistoria e anche la mitologia e le storie degli antichi riferiscono questa pratica.


Avvicinandoci ai tempi recenti, non si può non riferirsi a Enriqueta Marti, meglio conosciuta come "La strega di Barcellona". Fra il 1902 e il 1912 rapisce e uccide 10 bambini per ricavarne grasso, midollo e sangue, ingredienti base per un intruglio dalle miracolose proprietà terapeutiche. I resti dei bambini, dopo una bollitura, diventavano il pasto della donna.

Restando agli inizi del '900, Albert Fish, soprannominato "L'uomo grigio di Brooklyn, terrorizza gli Stati Uniti dal 1910 al 1934. Arrestato, si vanta di aver ucciso e mangiato oltre 400 persone.

Andrey Romanaic Cikatilo, detto "il macellaio di Rostov", viene accusato dell'omicidio di 53 persone fra il 1978 e il 1990.
Andrey, per mantenere in vita più a lungo le prede e soddisfare le sue voglie, provocava con un coltello ferite superficiali, poi asportava e mangiava gli organi genitali..Preferiva, mentre le vittime erano ancora in vita,strappare a morsi i capezzoli o il pene, il naso o la punta della lingua, prima di recidere gli occhi. Alle donne distruggeva l'utero e l'addome, ai maschi mutilava il pene, lo scroto e l'ano.

Lo slovacco Matej Curko cerca vittime volontarie attraverso Internet. "Se siete stanchi di vivere e volete morire, vi posso aiutare, ma in cambio vi farete mangiare". Si pensa che le vittime siano state almeno 30 e siano state fotografate durante la cottura e la conservazione.

Peter Custen, il "Mostro di Dusseldorf", agli inizi del'900, mangia almeno 9 donne.

Fiedrich Haarmann, il "Mostro di Hannover", tra il 1918 e il 1927 mangia almeno 27 adolescenti.

Nikolaj Dzhumagaliev, il "Mostro di Alma Ata", uccide, probabilmente dal 1970 al 1981, almeno 100 donne , che vengono servite per cena ai suoi amici.

Issei Sagawa, il "Piccolo Mostro di Parigi", nel 1981, uccide e mangia per giorni una studentessa francese.

Joey Cala, nel 2003, uccide la madre e ne mangia il cuore.

 Mao Sugiyama, un ragazzo giapponese,nel 2012, si fa asportare i genitali che cucina con funghi e prezzemolo e serve per pranzo a 5 ospiti paganti.

Katherine Knigh, nel 2000, accoltella il suo ex marito, lo scuoia e appende la pelle ad un gancio del salotto di casa. Lo decapita e cuoce la testa con la carne delle natiche, condendo il tutto con verdure, prima di servire ai figli.

David Playpenz di Colchester, Essex, rimane vittima di un incidente stradale e porta a casa un dito che i medici avevano dovuto amputare."Mi sono sempre chiesto come fosse mangiare la carne umana. Ma è un tabù. La gente non può andare in giro ed essere cannibale: è illegale. Solo allora mi venne in mente che nessuno poteva trascinarmi in tribunale per aver mangiato la mia carne. Ho deciso di cucinarlo e degustarlo".

Si pensa, ma non è accertato, che alcuni casi di cannibalismo siano stati causati dall'assunzione di una droga che provocherebbe uno stimolo incontrollabile di mangiare carne umana. Un caso si sarebbe verificato a Genova, dove un giovane studente avrebbe aggredito la propria compagna, strappandole le labbra a morsi.

Esiste recupero per i cannibali?

Ci chiediamo se sia possibile il recupero di una persona che commette un delitto legato al cannibalismo.
Probabilmente, chi arriva a mangiare un suo simile è un sadico psicopatico, che vivendo in uno stato di cecità emotiva, non conosce empatia.
Inoltre, l'uso dell'incorporazione, come forma di possesso o fusione, indica che questo soggetto, scambiando il piano astratto, simbolico con quello concreto, abbia avuto gravi lacune nello sviluppo. Si ritiene, pertanto, che una terapia psichiatrica non sia in grado di arginare il disturbo.


Il cannibalismo è un tema che desta curiosità, sconcerto, fascino, e ciò viene dimostrato dalle diverse produzioni cinematografiche e dalle numerose pubblicazioni riguardanti l'argomento.

Nessuna meraviglia se il cannibalismo attraversa il nostro quotidiano: "ti mangerei", "è buono come il pane","ti mangio il cuore", "vado lì e me lo mangio vivo".

Ne troviamo traccia nell'amore: i baci, i morsi di passione, l'essere dentro l'altro durante l'amplesso.

Ne è pervasa anche la religione cristiana: è, infatti, una forma di incorporazione simbolica nutrirsi del sangue e della carne di Cristo.


martedì 21 luglio 2015

OBBEDIENZA E CRUDELTA'




           L'esperimento Milgram e il condizionamento sociale


"E' possibile che Eichmann ed i suoi complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?" si chiede lo psicologo statunitense Stanley Milgram dell'Università di Yale, in occasione del processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, descritto da Annah Arendt ne "La banalità del male", più come un grigio burocrate, un piccolo ingranaggio della poderosa macchina di sterminio nazista, che come un essere mostruoso.

Nel 1963 Milgram, conducendo uno degli esperimenti più famosi e controversi della storia della psicologia sociale, vuole comprendere e dimostrare come un'autorità possa condizionare i valori morali ed etici di un soggetto.
In altri termini, lo scienziato vuole capire se e quanto fosse credibile la giustificazione addotta dai torturatori dei lager, che sostenevano di essersi limitati ad eseguire  ordini impartiti da superiori.

L'esperimento

Al fine di studiare quel fenomeno di "obbedienza distruttiva", Milgram reclutò quaranta uomini di età compresa fra i 20 e 50 anni, comunicando loro che avrebbero partecipato ad un esperimento su memoria e apprendimento e, in particolare, se la memoria potesse migliorare tramite la punizione degli errori.

Attraverso un sorteggio truccato, furono assegnati i ruoli di "allievo" e "insegnante": il soggetto ignaro era sempre sorteggiato come insegnante e il complice come allievo.
Gli insegnanti erano chiamati a proporre degli abbinamenti di parole agli allievi e, successivamente, ad interrogarli su quanto appreso.
I soggetti ignari avevano a disposizione una pulsantiera con venti interruttori, azionando i quali potevano infliggere all' allievo, collegato ad elettrodi, una scossa variabile tra 15 V e 450 V ad ogni risposta errata.

Ovviamente la scossa non arrivava mai agli allievi-attori che, comunque, simulavano urla e lamenti man mano che la scossa cresceva d'intensità. Oltre i 330 V gli allievi tacevano al fine di far pensare ad uno svenimento, dovuto all'eccesso di dolore.

Gli insegnanti, durante l'esperimento, erano affiancati da un esperto (l'autorità) che aveva il ruolo di esortarli in modo pressante a proseguire la prova, nonostante la sofferenza degli allievi, con formule precedentemente preparate da Milgram: "L'esperimento richiede che lei continui"; "Non ha scelta, deve andare avanti"; "E' essenziale che continui".

Due terzi degli insegnanti somministrarono scosse elettriche fino a 450 V, incuranti della sofferenza degli allievi.
L'impellenza ad obbedire risultava più forte della pietà verso la vittima e del senso di colpa per il dolore provocato.

L'esperimento dimostra che gli uomini sono portati all'obbedienza in presenza di una figura autoritaria, avvertita come legittima, che invita ad eseguire un compito, anche contrario, ai propri principi morali.

I soggetti dell'esperimento di Milgram, non percependosi responsabili delle loro azioni,, ma esecutori della volontà di un potere esterno, avevano contribuito alla creazione di uno "stato eteronomico"per il quale l'individuo cessa di considerarsi libero di intraprendere condotte autonome, ma mero esecutore di un ordine.

Uno stato eteronomico si basa su tre fattori:
  • La percezione di un'autorità legittima( lo sperimentatore rappresenta l'autorevolezza della scienza).
  • L'adesione al sistema di autorità (l'educazione all'obbedienza fa parte dei processi di socializzazione).
  • Le pressioni sociali (disobbedire allo sperimentatore significa metterne in discussione l'autorità).
Nel 1974 Milgram scriveva: "L'autorità ha avuto la meglio contro gli imperativi morali dei soggetti partecipanti, che imponevano loro di non far male al prossimo. La gente comune può diventare così parte attiva di un processo distruttivo terribile: sono pochissime le persone che hanno le risorse necessarie per resistere all'autorità".

Recentemente, uno studio di Matthew M. Hollander ha posto in discussione le modalità di esecuzione dell'esperimento Milgram, i cui risultati risulterebbero viziati da errori di impostazione, ad esempio la netta divisione dei partecipanti in obbedienti e disobbedienti, non tenendo in considerazione importanti sfumature.

Hollander, dopo aver esaminato le registrazioni audio dell'esperimento e analizzato le risposte dei partecipanti, ha scoperto  modi diversi con cui i soggetti resistevano o tentavano di resistere all'autorità che li incitava a proseguire con le punizioni.

Tra le modalità di resistenza, secondo lo studioso, ci sarebbero state delle strategie di stallo, come parlare con l'allievo o con lo sperimentatore, e il metodo stop try, vale a dire dichiarare di non avere più intenzione di procedere con la prova.

Hollander spiega: "Questo dimostra che anche i partecipanti classificati come obbedienti da Milgram lo hanno fatto solo dopo aver tentato diverse strategie di resistenza. Certo, hanno resistito meno dei soggetti disobbedienti, ma lo studio di queste differenze potrebbe essere cruciale per elaborare strategie più generali per la resistenza all'autorità e la prevenzione di comportamenti illegali o non etici".

Lo studio di Hollander, sconfessando, almeno parzialmente, lo scenario sconfortante di Milgram, fa sperare nella possibilità di diventare meno inclini all'accettazione passiva dell'imposizione della crudeltà, magari subalterni rispettosi dell'autorità, ma disobbedienti quando eticamente necessario.






venerdì 17 luglio 2015

I videogames violenti fanno male?



Non ci sarebbe alcuna relazione tra violenza virtuale e violenza agita, secondo lo studio condotto dallo psicologo Christopher Ferguson, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Comportamentali della Texas A& M International University, e dal suo team.


I ricercatori, dopo aver analizzato e confrontato la frequenza delle scene di violenza nei media tra il 1920 e il 2005 con gli episodi violenti avvenuti nel mondo reale nello stesso periodo, sono arrivati alla conclusione che all'aumentare della violenza nei media, quella reale è addirittura diminuita.

Questi dati, pubblicati sulla rivista specialistica Psychiatric Quarterly, si sovrappongono ai risultati ottenuti da uno studio dell'ESRB ( Entertainment Software Rating Board, gruppo che si occupa di classificare i videogiochi, pubblicati in Nord America, secondo contenuto e fasce d'età) sulla violenza giovanile e la violenza videoludica, confermando l'indiretta proporzionalità fra il proliferare di videogames "mattatoio" e il diminuire degli episodi di violenza reale.

Ferguson aggiunge che la crociata contro i games del tipo "io sopravvivo solo se ti uccido" abbia il fine di spostare l'interesse dell'opinione pubblica da altri problemi sociali reali, generatori di violenza nella vita quotidiana.

Qualche perplessità non ci pare fuori luogo.

Recenti ricerche americane dimostrano come alcune particolari aree cerebrali, quelle deputate al controllo delle emozioni e del comportamento aggressivo, siano fortemente condizionate dalla visione e dall'interazione con videogiochi violenti, determinando un effetto disinibitorio sui centri di controllo emozionali.

Lo psicologo Craig.A. Anderson dell'APA (American Psychological Association) ha pubblicato i risultati di uno studio che, dopo aver preso in considerazione 130000 persone fra USA, Europa e Giappone, collega i comportamenti violenti all'utilizzo di videogames violenti.

La ricerca dell'Ohio State University, pubblicando sulla rivista"Journal of Experimental Social Psychology",fornisce la prova sperimentale che gli effetti negativi del giocare ai videogames violenti, si accumulano nel corso del tempo.
I ricercatori, infatti, hanno scoperto, studiando i comportamenti di 70 studenti volontari, che quelli che avevano giocato con videogames violenti per tre giorni consecutivi, mostravano un aumento dell'aggressività e dell'ostilità.

Brad Bushman, co-autore della ricerca, spiega :"Giocare ai videogame potrebbe essere paragonato al fumare sigarette. Una singola sigaretta non causa cancro ai polmoni, ma fumare per settimane, mesi o anni incrementa notevolmente il rischio. Allo stesso modo, l'esposizione ripetuta ai videogame violenti ha un effetto cumulativo di aggressività."

Un altro studio condotto dalle Università di Amsterdam e di New Jork ha scoperto, utilizzando la Bold fMRI, una particolare risonanza capace di rintracciare le variazioni biochimiche cerebrali, che i video violenti determinano l'aumento dei neuroni preposti ad affrontare le situazioni di attacco o fuga (fight or flight), come accade, per esempio, in guerra.

E' stata anche esaminata la saliva di soggetti mentre guardavano alternativamente immagini violente e immagini che non lo erano.

Solo in chi guardava immagini violente è aumentata la noradrenalina, il neurotrasmettitore fondamentale nella risposta allo stress, attivando un aumento del battito cardiaco e del tono muscolare.

L'America, ideatrice dei "War Games"per insegnare ai militari a superare il blocco psicologico che impedisce di uccidere un altro essere umano, ha concentrato adesso l'attenzione sul tema.

I massacri nella scuola di Newtown, nella Columbine High School, al Politecnico in Virginia, il caso dei due ragazzi di Detroit, che hanno ucciso un loro coetaneo, bruciandone i resti, per imitare "Manhuntz2", il caso di un quattordicenne videodipendente che ha ucciso tre ragazzine o ancora il caso di uno studente ossessionato dal videogioco militare "Counter Strike", hanno forse indotto Obama a destinare fondi per la ricerca degli effetti dei Killer Games sulle "giovani menti".

Anche in Italia diversi organismi di ricerca hanno dedicato attenzione al tema.

L'Istituto di Ortofonologia di Roma (IdO) ha condotto uno studio su 1414 studenti dai 10 ai 19 anni.
L'indagine ha evidenziato che il 75% degli adolescenti italiani gioca ai videogames online e nel 40% dei casi lo fa da solo contro il computer, l'11% contro persone conosciute in rete.

L'IdO, interrogandosi come e in che misura i videogiochi possano influenzare la sfera cognitiva ed emotiva dei minori, mette in evidenza che essi, positivamente, mettendo in connessione individui in tutto il mondo, alimentano il concetto di sfida e di superamento degli ostacoli.

Concreto risulta ,però, il rischio di desensibilizzazione, associabile ad una mancanza di comprensione verso il prossimo e all'incapacità di stringere relazioni sociali positive.

L'argomento presenta tanti punti da approfondire e tanti interrogativi che aspettano risposta, ma ci piace concludere con l'affermazione di un gruppo di scienziati, pediatri,clinici e sostenitori della lotta alla violenza, riuniti recentemente a Vancouver per il meeting annuale Pas-Pediatric Academic Societies:"Violenza chiama violenza, anche quando all'aggressività si assiste attraverso lo schermo di un cinema, della TV o di un videogioco".



martedì 30 giugno 2015

SIAMO TUTTI MALVAGI?




L'esperimento della prigione di Stanford



Nel 1971 lo psicologo Philip Zimbardo organizza uno fra gli esperimenti più famosi di psicologia sociale.
L'esperimento nasce dalla volontà di indagare su che cosa può trasformare una "persona buona" in un individuo che commette atti malvagi.

"Sono le situazioni in cui veniamo posti a determinare il nostro comportamento?" si chiedono Zimbardo e il suo team di ricercatori.


Ai fini della ricerca viene simulata una prigione nei sotterranei della facoltà di Psicologia dell'Università di Stanford e vengono selezionati 24 studenti, senza precedenti penali e in buona salute fisica e psichica, per far loro assumere i ruoli di guardie e prigionieri.
La prigione includeva tre celle di 2 metri per 3 e ognuna di esse ospitava tre " prigionieri". Altre stanze venivano occupate dai "guardiani". Uno spazio angusto ospitava la cella di isolamento e uno, altrettanto minuscolo, serviva come cortile per l'ora d'aria.

L'esperimento

Gli studenti, futuri prigionieri, vengono prelevati dai dormitori universitari e scortati fino alla finta prigione. Viene  data da indossare una casacca numerata e sono poste catene alle caviglie. Alle guardie sono consegnati dei simboli di potere quali uniformi, occhiali riflettenti (in modo da non poter essere guardati negli occhi), manganelli, fischietti e manette.
L'obiettivo di Zimbardo consisteva nell'associare ad ogni ruolo un simbolo distintivo al fine di preparare il terreno ad un processo di disorientamento, depersonalizzazione e riduzione del senso di identità.

Nonostante l'esperimento fosse programmato per durare 14 giorni, si interrompe dopo 6 giorni

Dopo solo due giorni si verificano i primi episodi di violenza: i prigionieri si ribellano contro la loro carcerazione, strappandosi le divise e inveendo dalle celle contro le guardie che reagiscono schernendo e abusando i loro prigionieri. Questi vengono costretti a pulire le latrine a mani nude, a defecare in secchi e a simulare atti di sodomia.
Lo stesso Zimbardo ammette  di essersi immerso nel ruolo di "direttore della prigione", così come altri membri del team di ricercatori.
Dopo 36 ore i prigionieri mostrano chiari segni di disgregazione individuale e collettiva: docili e passivi, perdono ogni contatto con la realtà. Le guardie si identificano totalmente al loro ruolo, continuando a praticare comportamenti sadici e vessatori.
Al sesto giorno, dati gli esiti drammatici, Zimbardo interrompe l'esperimento.
I prigionieri si mostrano sollevati e contenti della conclusione anticipata, invece le guardie molto insoddisfatte.

L'effetto Lucifero


Zimbardo nel suo saggio del 2007, pubblicato in Italia nel 2008,"Effetto Lucifero" : " L'idea che un abisso invalicabile separi le persone buone da quelle cattive è consolante per almeno due ragioni. Anzitutto, crea una logica binaria, in cui il Male è essenzializzato. La maggior parte di noi percepisce il Male come un'entità, una qualità intrinseca di certe persone e non di altre [...]Inoltre, sostenere che esiste una dicotomia Bene-Male assolve le"persone buone" dalla responsabilità. Le libera dal dover prendere anche soltanto in considerazione il loro possibile ruolo nel creare, difendere, perpetuare o ammettere le condizioni che contribuiscono alla delinquenza, al crimine, al vandalismo, alle molestie, al bullismo, allo stupro, alla tortura, al terrore e alla violenza".


Nelle nostre società occidentali è radicata la convinzione che i comportamenti siano sempre il risultato delle disposizioni interiori degli individui, sottovalutando il peso delle situazioni in cui questi si trovano ad agire.

La tesi situazionale, sostenuta da Zimbardo, porta invece a considerare determinante la situazione sociale in cui ci si trova collocati . Tale situazione può portarci ad agire in maniera difforme a quelli che sono i valori e i comportamenti abituali.
Si può allora affermare che il male è l'esercizio del potere sugli altri in una situazione in cui non ci si sente responsabili delle proprie azioni.


Chi non ricorda Abu Ghraib, la prigione di Baghdad?








Il caso si verificò nel 2004, quando vennero pubblicate fotografie che ritraevano soldati statunitensi mentre torturavano sistematicamente e sadicamente i prigionieri iracheni.
Ad esaminare e valutare le immagini, delle quali la maggior parte non fu pubblicata per l'impressionante crudezza, fu chiamato proprio il professore Philip Zimbardo.



L'esperimento di Stanford, pur attirando diverse critiche di ordine etico, resta un episodio fondamentale per comprendere come una situazione possa influenzare il comportamento umano: gli abusi nella prigione irachena di Abu Ghraib e quelli che si verificano, anche a nostra insaputa, sono esempi reali dello studio di Zimbardo.

La prigione di Standford ha ispirato altri studi, saggi, opere teatrali e, soprattutto, films, fra i quali ultimo nato è "The Standford Prison Experiment" del regista americano Kyle Patrick Alvarez.

domenica 28 giugno 2015

Malattia mentale e processo creativo

Vincent Van Gogh "Campo di grano con volo di corvi" 1890



Esiste una connessione fra malattia mentale e processo creativo?
In che rapporto e fino a che punto genio e follia possono coesistere?


Non si può negare che il legame fra arte e patologia sia un percorso di ricerca sempre aperto, se consideriamo che da oltre due secoli scienziati, neurologi, psichiatri e filosofi mostrano una marcata attenzione per le espressioni artistiche in ogni loro manifestazione.

Accostare il genio creativo alla follia distruttiva è cosa ardita: il primo crea bellezza, il secondo genera orrore.

Può esistere un punto di contatto fra due individualità così diverse?

L'anello di congiunzione risiede nella convinzione di entrambi che la loro opera sia una creazione.
Un folle assassino, ad esempio, considera i suoi omicidi il frutto della sua creatività distorta, una forma d'arte perversa che soddisfa, in maniera patologica, il bisogno di creare qualcosa di immortale.
Non è un caso se gli assassini, in prigione, quando non possono più uccidere, si dedichino all'arte, soprattutto alla pittura e alla scrittura.

Cesare Lombroso, padre dell'Antropologia Criminale, già nel 1864 scriveva nel suo saggio "Genio e follia": "E chi alla lettura di queste belle pagine può dubitare che vi siano casi in cui la pazzia dà agli intelletti volgari un lievito sublime che li solleva dal livello comune?" .

Secondo Lombroso esiste un forte nesso fra genialità, creatività e combinazioni psicobiologiche borderline, supportato da una gran quantità di dati biografici relativi a "molti uomini d'ingegno": "Ed infatti moltissimi uomini d'ingegno ebbero parenti o figliuoli epilettici, idioti o maniaci[...] Né fu raro il caso in cui quelle cause, pur sì frequenti, dell'alienazioni, che sono le malattie e i traumi del capo, mutarono, invece, in uomo di genio un'esistenza più che volgare. Vico cadde da una scala altissima, nell'infanzia, e n'ebbe fratturato il parietale destro. Gratry, mediocre cantore, da prima, divenne famoso maestro dopo che una trave gli fracassava la testa".

Stando all'opinione di Lombroso, la personalità artistica è particolarmente propensa al crimine, come  scrive nel suo testo cardine "L'Uomo delinquente".





Lo psichiatra francese Edouard Lefort pubblica nel 1892 "Le type criminal d'apres les savant et les artistes (Il tipo criminale secondo gli scienziati e gli artisti).

Lo scienziato, passando in rassegna la riproduzione di famosi quadri della scuola italiana, fiamminga, spagnola, francese, rileva che nell'iconografia religiosa i violenti, gli omicidi, i carnefici, i dannati hanno fisionomie ripugnanti o brutali, che riprendono le caratteristiche del tipo criminale: testa grossa, occhi piccoli, mascelle grandi e quadrate, fronte stretta, zigomi sporgenti, tanto da affermare che "il tipo criminale intuito da Lombroso ha un perfetto riscontro nell'opera artistica di molti secoli".

Enrico Ferri, appartenente alla "scuola lombrosiana", sottolinea nel 1896 il contatto immediato fra scrittori, poeti ,pittori ed il mistero del male: "La verità è che il crimine, nei suoi due aspetti, colui che lo compie, colui che lo subisce, è dolore: l'artista che possiede la sensibilità cosmica di percepire e raccogliere, ne è investito".

Per Ferri sono la letteratura e il dramma ad aver prestato maggiore attenzione ai "tipi criminali".

Riferimento obbligato è William Shakespeare: "Macbeth è il tipo completo del delinquente nato, ramo doloroso e mostruoso che sorge dal tronco patologico della nevrosi epilettica e criminale" e "Amleto, invece, è un tipo genialmente delineato di delinquente pazzo, in una di quelle forme lucide o ragionamenti che sono lontani, certo, dall'osservazione comune", mentre Otello identifica il delinquente passionale.

L'interesse per la relazione arte-patologia hanno segnato a lungo i percorsi della scuola criminologica italiana, tant'è che il fisiologo Mariano Patrizi scrive un saggio dominato da una lettura patogenetica di Giacomo Leopardi, ed uno su Caravaggio, esempio di "pittore criminale".

Lo sviluppo delle neuroscienze ha ridato linfa vitale allo studio neurologico della creatività artistica.
Gli esiti della ricerca sembrano confermare la presenza di fattori neurologici comuni alla genesi creativa e ad alcune forme di sofferenza psichica.

Andreas Fink, neuroscienziato dell'Università di Graz: "Sulla base di questi risultati potremo concludere che i medesimi tratti di personalità e cognitivi possono essere piuttosto simili fra le persone creative e persone sofferenti di forme moderate di disturbi mentali[...]si può ipotizzare che tanto gli individui predisposti alla psicosi che quelli altamente creativi, includono nei loro processi mentali molti più stimoli e categorie di quanto non facciano le persone meno creative, il che potrebbe essere visto anche come una sorta di interruzione dei meccanismi di filtro, che sono preposti a bloccare gli stimoli per facilitare l'efficienza del processo di elaborazione delle informazioni". In accordo con ciò "individui altamente creativi e persone sofferenti di patologie psichiche appaiono contraddistinti in parte dall'abilità di percepire e descrivere ciò che rimane nascosto alla vista degli altri".

Vale la pena ricordare che nel 1999 il neurologo britannico Semir Zeki, introduce il termine neuroestetica, sostenendo un possibile sviluppo di un campo di conoscenza riferita all'aspetto biologico dell'esperienza estetica.


Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco, analizza in un saggio del 1922 "Genio e follia" il rapporto esistente tra la schizofrenia e la genialità, proponendosi di capire perché, nelle espressioni più alte, arte e follia coincidono.



Jaspers analizzò dettagliatamente la vita di Van Gogh al fine di fornire un'immagine della coesistenza di pazzia e genialità nella vita di questo artista.

Il 1888 coincide con l'inizio della malattia: le allucinazioni insopportabili si verificano in concomitanza con il "furor" creativo dell'artista che lavora convulsamente alle proprie tele.

I quadri rappresentano paesaggi dove tutto è tormento: la terra pare sollevarsi come onde, gli alberi sembrano fiamme, il cielo pulsa, le tinte sono ardenti, crude ed intense.

Nello stadio finale della malattia che avrebbe ben presto condotto l'artista al suicidio, i quadri sono dipinti con colori ancora più stridenti, aumentano gli errori prospettici.

Con l'eccitazione pare venir meno il controllo interiore, la tecnica diventa più grossolana.
In questo periodo Van Gogh scrive: "Mi sento alla fine, alla resa dei conti. E' il mio destino, devo accettarlo, non cambierà...il futuro è oscuro, non vedo un avvenire felice.

Anche in letteratura abbiamo casi di "geni folli". Edgar Allan Poe presenta una dissociazione mentale alterata dall'uso di sostanze stupefacenti , come il laudano.



Poe soffre di uno stato di alterazione psichica dovuto ad un trauma infantile: la morte di tisi della madre.

Maria Bonaparte, psicoanalista e scrittrice, nella sua lettura psicoanalitica di Poe, sostiene che l'artista abbia tentato invano di sfuggire al ricordo della malattia e della morte della madre ma "per quanto tirasse la catena non riusciva a spezzarla".

Poe sposa una donna malata di tisi, ma quando la moglie comincia ad assomigliare troppo alla madre defunta, egli viene colto da terrore e si rifugia nella scrittura. L'artista si crea un proprio mondo visionario in cui domina la morte, svelamento dell'inganno della realtà.

"Gli uomini mi hanno definito pazzo, ma non è ancora ben chiaro se la pazzia sia o non sia la più alta forma di intelligenza e se le manifestazioni più meravigliose e più profonde dell'ingegno umano non nascano da una deformazione morbosa del pensiero, da aspetti mentali esaltati a spese dell'intelletto normale ( E.A.Poe).









domenica 21 giugno 2015

Il malato inguaribile (parte terza)

                         









                    Danilo Restivo: un caso"tutto italiano"                                    

A Potenza lo chiamavano “il parrucchiere” per la sua ossessione di tagliare di nascosto, preferibilmente in autobus, le ciocche di capelli alle ragazze: possesso compulsivo di un feticcio femminile.

E’ noto anche per l’abitudine di importunare le ragazze, di cui si invaghisce, con telefonate mute seguite dalla colonna sonora del film “Profondo rosso” o dalla melodia “Per Elisa”.
Restivo tenta di ottenere, con la scusa di offrire piccoli doni, appuntamenti dalle ragazze da cui è attratto, diventando aggressivo e violento al rifiuto dei suoi approcci.



                     L’incontro con Elisa Claps





La mattina del 12 settembre 1993, incontra nella Chiesa della SS. Trinità a Potenza, Elisa Claps, studentessa sedicenne, al momento della scomparsa.

Dalle indagini risulta che l’ultima persona ad averla vista è Danilo Restivo, subito sospettato dagli inquirenti per avere un ruolo di primaria importanza nella scomparsa della ragazza.

Motivo del sospetto: Restivo tenta maldestramente di ricostruire, in maniera convincente, i suoi spostamenti dopo l’incontro.

Un sospetto che cade nel vuoto. E dire che tanti indizi e possibili prove puntavano il dito sull’uomo, a cominciare dai vestiti sporchi di sangue, il sangue di Elisa.
Nessuno ha richiesto, per esaminarli,  gli abiti indossati il giorno della scomparsa? O qualcuno si è rifiutato di consegnarli?
Per anni i familiari di Elisa chiedono insistentemente, ma senza esito, anche attraverso programmi televisivi, di indagare a fondo su Restivo e di effettuare accurati sopralluoghi nella Chiesa della SS. Trinità.

IL 17 marzo 2010, vengono ritrovati i resti della giovane nel sottotetto della chiesa, dove Elisa aveva incontrato il suo carnefice.




                   Danilo Restivo in Inghilterra


Durante gli anni delle “cosiddette indagini” sulla scomparsa di Elisa, il ragazzo di “buona famiglia” è lontano, spedito dagli accorti genitori oltremanica.

Nel 2002 “il parrucchiere” approda in Inghilterra, dove porta i suoi demoni.
Da qualche tempo, a Bournemouth, dove vive e si è sposato, si verificano episodi in cui vengono tagliate ciocche di capelli a ragazze, che riconoscono in Restivo l’autore del gesto.


              L’assassinio di Heather Barnett




Il 12 novembre 2002, a Bournemouth, si consuma un feroce delitto: la vittima è una vicina di casa del Restivo, Heather Barnett, quarantotto anni, sarta, madre di due figli.

La donna, trovata riversa nel bagno, martoriata ed orrendamente mutilata, tiene nelle mani due ciocche di capelli: una appartenente alla vittima, l’altra ad una persona non identificata.

I sospetti cadono immediatamente su Restivo, il quale il 30 giugno 20011 viene condannato all’ergastolo dalla Crown Court di Winchester per l’assassinio della Barnett.

Nel pronunciare la sentenza, in cui si afferma che, senza ombra di dubbio, Restivo ha ucciso anche Elisa Claps, il giudice Michael Bowes così si rivolge all’assassino: ”Lei non uscirà mai di prigione(…)Lei è recidivo. E’ un assassino freddo, depravato e calcolatore(…)che ha ucciso Heather come ha fatto con Elisa. Ha sistemato il corpo di Heather come fece con quello di Elisa. Le ha tagliato i capelli, proprio come a Elisa (…)Merita di stare in prigione per tutta la vita”.



                Forse una terza vittima e un innocente in carcere




Su Danilo Restivo si addensano pure i sospetti dell’assassinio di Joung-Ok-Shin, una studentessa sudcoreana di ventisei anni, uccisa il 12 luglio 2002 a Charminster, sobborgo di Bournemouth.
Per questo omicidio, nel 2005, viene dichiarato colpevole e condannato all’ergastolo Omar Benguit.
Il caso è stato riaperto e richiuso più volte, ma Omar Benguit si trova ancora in carcere, presunto innocente, a parere di molti.

Oki, così chiamavano la vittima, viene uccisa da un uomo che indossava un passamontagna, particolare fornito dalla stessa studentessa prima di spirare. Solito modus operandi e stessa firma: un paio di forbici come arma del delitto, taglio di una ciocca di capelli.

Da quanto è possibile apprendere, la polizia inglese, nel corso di una perquisizione nell’abitazione del giovane potentino, rinviene un diario. Tra le pagine, attaccate con nastro adesivo, ciocche di capelli di diverso colore.

E ancora prima degli omicidi della Barnett e di Oki, la polizia aveva fermato, in un parco pubblico, il Restivo per un controllo. L’uomo portava con sé uno zainetto contenente un passamontagna, un paio di forbici e guanti di plastica.


                La famiglia Restivo






Di Restivo è stato detto e scritto tanto. Della sua personalità oscura e complessa, della sua famiglia, dei suoi comportamenti, a dir poco inquietanti, quando era ancora un ragazzino.

Danilo è figlio di Maurizio Restivo, un notabile della città di Potenza, nipote di un esponente di primissimo piano della Democrazia Cristiana. In città viene descritto come un uomo superbo e dalla forte e carismatica personalità.

A Potenza si riferiva spesso dei comportamenti “fuori dall’ordinario” del giovanissimo Danilo.
Da ragazzo lavorava presso una ditta di disinfestazione ambientale. Per bocca di un suo collega, licenziato per queste dichiarazioni, si apprende che il giovanissimo Danilo era solito urlare, in preda al panico, richieste d’aiuto durante la notte.
Sempre lo stesso collega riferisce dell’impellente necessità del giovane di sottoporsi a lunghe docce, a qualsiasi ora del giorno, anche in piena notte, quasi volesse smacchiarsi da un senso di colpa o da qualcosa che lo turbava.

Si racconta a Potenza che Danilo, ancora bambino, avesse ferito non lievemente “per gioco” un coetaneo. I genitori del bambino ferito denunciano l’accaduto, ma poco tempo dopo, grazie all’intervento tempestivo del padre Maurizio, tutto svanisce in una bolla di sapone.

Due fratelli, sempre a Potenza, raccontarono che qualche mese prima della morte di Elisa Claps, Danilo, per gioco, li avesse legati ad un albero per un’intera notte, infastidendoli con la punta di un coltello.


Se la famiglia Restivo avesse preso coscienza delle condizioni mentali di Danilo, invece di insabbiarne i comportamenti, Elisa, Heather e chissà quante altre vivrebbero ancora.

Questa è una brutta storia di provincia: una rete di silenzi, coperture, connivenze si è estesa attorno al ragazzo, proteggendolo oltre ogni decenza e ogni buonsenso.



    Il ritrovamento di Elisa


Il 17 marzo 2010 i resti di Elisa Claps vengono ritrovati nel sottotetto della Chiesa della SS. Trinità. Sembrerebbe scoperti casualmente da alcuni operai, durante dei lavori di ristrutturazione.

Il ritrovamento sarà giudicato dai familiari una messinscena, ritenendolo avvenuto in precedenza e tenuto nascosto dal parroco della chiesa, don Mimì Sabia, poi deceduto.

Gildo, fratello di Elisa, ricorda che nel 1996, proprio nel sottotetto della chiesa, si erano tenuti dei lavori durante i quali l’impresa appaltatrice ”incernierò dei cassettoni proprio in corrispondenza del cadavere di mia sorella. Ridicolo pensare che nessuno abbia mai visto niente”.
Particolare da non sottovalutare: accanto al cadavere di Elisa, uccisa a colpi di forbici, viene ritrovato un bottone rosso, compatibile con un bottone da abito cardinalizio.

Danilo Restivo il 24 aprile 2013 viene condannato a trent’anni, e non all’ergastolo, per l’assassinio di Elisa Claps, in quanto i “reati concorrenti”, violenza sessuale e occultamento di cadavere, che avrebbero potuto far scattare l’ergastolo, erano caduti in prescrizione per la lunghezza delle indagini.
Tornerà in Inghilterra a scontare il suo ergastolo, dopo essere stato estradato temporaneamente  in Italia per presenziare al processo.


“Condotte di inquinamento probatorio imputabili a famigliari e terzi” scrive il GUP Elisabetta Boccassini nella sentenza di condanna a carico di Danilo Restivo.
La famiglia Restivo, sempre a quanto scrive la Boccassini, ha avuto un ruolo centrale, un ruolo di totale copertura.

Negli anni in cui le indagini non registravano alcun progresso, Felicia Genovese, PM di Potenza e titolare dell’indagine, viene indagata dalla Procura di Salerno, competente per i magistrati di Potenza, in quanto sospettata di aver insabbiato il caso. Viene prosciolta, ma il caso Claps passa di competenza dalla Procura della Repubblica di Potenza a quella di Salerno.


Tobias Jones, autore di “Sangue sull’altare”, scrive che il padre di Danilo Restivo teneva contatti telefonici con Felicia Genovese, il cui marito era un massone come lui.
Sempre secondo Jones, il silenzio dei potenti in questa storia è stato sconvolgente, e riferisce l’esempio del senatore a vita Emilio Colombo che, pur assiduo frequentatore della Chiesa della SS. Trinità, non si espresse mai in pubblico né sulla scomparsa di Elisa né sul ritrovamento del cadavere.


Perché nella chiesa in cui Elisa sparì non ci furono mai sopralluoghi? Perché non furono mai “messe alle strette” i sacerdoti di quella parrocchia? Perché i vestiti macchiati di sangue del principale sospettato non furono sequestrati? Perché l’amica che accompagna Elisa all’incontro con Danilo, non riesce a collaborare con la giustizia? Perché qualcuno testimoniò di aver visto Elisa, quando la ragazza era già morta, tentando di insinuare l’allontanamento volontario? Perché ai ” giochi ingenui” di Danilo non fu mai attribuita la giusta pericolosità? Perché tutte le denunce a suo carico cadevano sempre nel nulla?




                Anna Esposito: un suicidio anomalo




Anna Esposito, Commissario di Polizia di trentacinque anni, nel 2001 viene trovata impiccata alla maniglia della porta del bagno, nel suo appartamento a Potenza.
Il caso viene immediatamente archiviato come suicidio. Sulla relazione dei medici legali si legge una singolare definizione: “impiccamento atipico incompleto”.

Fortunatamente, dietro le pressioni della famiglia di Anna, nel 2013 si torna ad investigare, date le troppe falle della precedente indagine, non esclusa la testimonianza decisiva di Don Vignola, cappellano della Questura  che il giorno della scomparsa di Elisa, aveva celebrato messa alla Trinità in sostituzione di Don Mimì Sabia, partito per Fiuggi.
Don Vignola sembra conoscere particolari riservati della vita dell’Esposito, come altri tentativi di suicidio, ma non sembra un testimone attendibile: racconta e omette a seconda dell’interlocutore.

Nel 2000 Anna Esposito avrebbe confessato ad un familiare: ”Qualcuno in questura sa dove si trova il corpo di Elisa Claps” .

Forse Anna era ad un passo dalla verità sulla morte di Elisa, tanto da aver chiesto a Gildo Claps, un incontro, fissato per il pomeriggio del 12 marzo 2001, a cui non si presenterà perché morirà poche ore prima “per impiccamento atipico incompleto”.
Strana scelta quella del momento del suicidio: Anna si stava preparando per recarsi ad una festa, sul letto, pronti per essere indossati, stavano abito nero, calze nere e scarpe eleganti.

Benché il colpevole dell’omicidio di Elisa Claps sia stato assicurato alla giustizia, ancora oggi sulla vicenda permangono ombre e domande ancora in cerca di risposta.

Un caso “tutto italiano”.



                                        BIBLIOGRAFIA


·         V.M. Mastronardi- R. De Luca , I serial killer Newton, Compton Editori, Roma, 2014


·         R. De Luca,  Anatomia del serial killer, Giuffrè, Milano, 2001


·         M. Malagoli Togliatti-L. Rocchietta Tofani, Famiglie multiproblematiche, NIS, Roma, 1975


·         M. Newton, Serial Slaughter: What’s Behind America’s Murder Epidemic , Loompanics, Washington, 1992

·         F. Bruno, Inquietudine omicida, Phoenix, Roma, 2000


·         M. Newton, Hunting Humans: An Encyclopedia of Modern Serial Killers, Loompanics, Washington, 1990


·         U. Cubeddu,  Ergastolano in permesso, l’incubo del serial killer, in “Il Messaggero” 6 settembre 2000


·         R. De Luca, L’omicidio seriale in Europa, Presentazione di Eskidab, la Banca Dati Europea sui Serial Killer


·         G. Bianconi Violenze, bugie e trame in carcere. Una vita dal massacro ai depistaggi in “Corriere della Sera” 1 maggio 2005


·         M. Serri,  Izzo e gli altri. Perché è così difficile capire se dentro sono rimasti dei mostri in “Corriere della Sera Magazine”, n. 19, 12 maggio 2005


·         V. Andreoli, Chi ha fallito in “Io Donna” n. 20, 14 maggio 2005


·         F. Sciarelli- G. Claps, Per Elisa: Il caso Claps. Dodici anni di depistaggi, silenzi , omissioni Rizzoli, 2011


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·         Sicilia Informazioni, Caso Claps: Chi è Danilo Restivo? Archivio storico,20 maggio 2010


·         T. Jones, Sangue sull’altare , Il Saggiatore, 2012



·         F. Amendolara, Il segreto di Anna, EdiMavi, 2014