venerdì 24 ottobre 2014

IL MOSTRO IN CASA





Sono vicini a noi, accadono di continuo e stanno subendo un tragico e rapido incremento. Maturano all'interno di una piccola comunità, di piccoli nuclei sociali come coppie, famiglie, condomini: sono gli omicidi di prossimità.

Il giornalista e scrittore Luigi Bernardi nel suo "Il male stanco. Alcuni omicidi quotidiani e quello che ci dicono",affronta il problema, ricostruendo quattordici omicidi, tra i più conosciuti degli ultimi anni.
Storie di uomini che uccidono fidanzate e mogli, di madri che ammazzano i figli, di figli che si sbarazzano dei genitori, di piccole beghe condominiali che sfociano in crudele forza vendicativa, di cadaveri di scomparsi trovati, quasi sempre per caso, in angoli poco visibili, ma sempre vicini al luogo dove tutto ha avuto inizio.

Il male stanco. La stanca quotidianità del male.
Il male, dunque, ha perso la sua fermezza, la sua solidità?
La società è allo sbando? Ha smarrito i suoi punti fermi, i suoi modelli e valori di riferimento?


Fatuità, inconsistenza,incongruenza: per finire una storia d'amore o per cercare di mantenerla, per risolvere un litigio fra condomini o colleghi, individui, "apparentemente normali", si trasformano in feroci assassini.

Individui apparentemente normali, si diceva.

Anche i vicini di casa dei carnefici e delle vittime descrivono situazioni normali e ritengono l'accaduto imprevedibile e incomprensibile.

Perché è accaduto un determinato evento e cosa lo ha scatenato?

Il termine più utilizzato ed abusato è " raptus".
Anche gli studiosi della mente umana lo ritengono un termine senza senso psichiatrico, ma molto utile a chi fa le perizie, per giustificare azioni di grande violenza, attenuare la gravità del fatto e la colpa di chi le commette.




A questo punto, la parola allo scienziato, prima ancora che alla giustizia.

Malattia mentale? Malattia sociale?
La malattia mentale può trasformare uno stimato padre di famiglia in un feroce assassino?
Si, a quanto pare.

La malattia psichica annebbia il pensiero ed arma la mano, ma spesso non dà segni premonitori, segnali riconoscibili o comportamenti eccessivi.
Neanche la famiglia,i colleghi di lavoro, i vicini si accorgono dell'esistenza di una bomba ad orologeria.

Non fermiamoci, però, alla patologia mentale. Mettiamo anche in ballo la malattia sociale, o forse meglio, il crescente disagio sociale prodotto dalla caoticità dell'esistenza.
Ecco tornati alla stanchezza del quotidiano, al male stanco, al male banale, alla banalità del male.

Banale è anche che i corpi di persone da tempo scomparse, vengano ritrovati, fortuitamente, a due passi da casa, banale è pure che manchi sempre qualcosa: o l'assassino, o l'arma del delitto o il movente.

O esiste, forse, il delitto perfetto?
No, non esiste il delitto perfetto, ma esistono le indagini imperfette.

Oggi, con i mezzi di cui la scienza dispone, teoricamente, tutti i casi sono risolvibili.
Se non si arriva alla conclusione, diciamolo pure, qualcosa o qualcuno non ha funzionato.


Piera Denaro













venerdì 17 ottobre 2014

DONNE E VELENI

La donna serial killer non è una rarità.

L'universo dell'omicidio seriale non è, infatti, popolato solo da uomini assassini e donne vittime.
Le donne, omicide seriali, riescono a portare avanti per anni la catena di omicidi e, dal punto di vista investigativo, sono più difficili da individuare rispetto agli uomini.

La scelta delle armi, la selezione meticolosa delle vittime e l'organizzazione metodica dell'omicidio, che tende sempre a simulare una morte naturale, sono elementi che, combinati ad una forte resistenza culturale ad ammettere l'esistenza dell'omicidio seriale femminile, sono alla base del "numero oscuro" delle serial killers .

Sono molto rari i casi di strangolamento, percosse, uso di armi bianche; l'arma preferita è il veleno, mezzo che evita il contatto fisico, è discreto,non lascia traccia e, in molti casi, il decesso della vittima appare naturale.

Secondo lo studioso Michael Newton (The Enciclopedia of Serial Killer), il primo caso documentabile di omicidio seriale si riferirebbe ad una avvelenatrice, una certa Locusta o Lucusta, vissuta a Roma durante il primo secolo d.C.
Era una donna di origine gallica, molto popolare in città per la preparazione su commissione di sostanze velenose. A quanto pare, i suoi servizi furono pure richiesti da Agrippina, per uccidere il marito, l'imperatore Claudio, e da suo figlio Nerone.

Anche in età repubblicana, secondo quanto viene tramandato dagli Annali di Roma, sotto il consolato di Valerio Flacco e Marcello, si verificarono numerosi decessi improvvisi, diffusi in tutti gli strati sociali.

Pare che una schiava avesse denunciato alle autorità che autrici dei delitti fossero delle matrone, costituitesi in associazione segreta, al fine di preparare pozioni avvelenate destinate a persone indesiderate.

La storia incrocia la leggenda nel caso della contessa ungherese Erzsebet Bathory,che, nel 1611, venne condannata a morte per aver torturato e sgozzato 650 donne, allo scopo di farsi il bagno nel loro sangue, ritenendolo ricco di proprietà "anti age".

Nel secolo XVII, si moltiplicarono in tutta Europa i casi di veneficio e nel 1676, in Francia, venne giustiziata Marie de Brinvilliers, accusata di aver avvelenato moltissime persone, compresi amici e parenti.

Restiamo nel '600, secolo di oscuri misteri e delitti.

Gran parte delle notizie relative a Lucida Mansi, ci sono fornite dal folklore.
Si dice, a Lucca, che questa donna abbia ucciso, dal 1628 al 1649, un numero imprecisato di mariti e
amanti.
Giulia è descritta dalla leggenda come una donna di straordinaria bellezza e amante del lusso. Preferiva amanti giovanissimi, disposti a seguirla nei suoi frequenti viaggi, dai quali nessuno faceva più ritorno. La donna, dopo l'amplesso, li gettava in un "carnaio": si trattava di una botola posta sotto l'alcova, nel cui fondo erano posizionate lance acuminate. La bella Lucida morì forse di peste nel 1649. Sembra che i Lucchesi più superstiziosi,ne vedano aggirare il fantasma intorno alla villa di Segromigno, dove aveva abitato, e che oggi è monumento nazionale.


La nobile Olimpia Mancini, nata a Roma nel 1638, e prima amante di Luigi XIV, rimase coinvolta nello "Scandalo dei veleni" ( Parigi , decennio 1670- 1680). Da un'inchiesta risultò che una certa Marie Bosse aveva fornito veleni alle mogli di membri del Parlamento, le quali volevano sbarazzarsi dei rispettivi mariti.
Il luogotenente di polizia La Reynie scoprì che si aggiungevano all'avvelenamento altri crimini: uccisioni di bambini e profanazione delle ostie consacrate.
Il caso si concluse con galera e condanne a morte.

Storia, leggenda e folklore sono gli ingredienti dei casi di Giulia Tofana e Giovanna Bonanno, entrambe palermitane.

Giulia Tofana era una cortigiana molto attraente, intelligente e scaltra nel condurre gli affari, almeno la descrivono così i resoconti dell'epoca.
A lei si deve l'invenzione dell'acqua tofana, un veleno ideale, privo di odore, sapore e colore, ottenuto da una miscela di anidride arseniosa, limatura di piombo e antimonio.
L'acqua tofana veniva venduta in piccole fiaschette di vetro alle numerosi clienti che si rivolgevano all'affascinante Giulia, per eliminare mariti, amanti e parenti.
Poche gocce, versate ogni giorno nelle bevande o nei pasti, causavano la morte nel giro di quindici giorni e rappresentavano una soluzione ideale per quelle donne che non avevano altra via di fuga da matrimoni imposti.

Bisogna considerare che nel '600, in Italia e in Europa, le donne venivano costrette a sposarsi in giovanissima età, a 14 o 15 anni e spesso anche più giovani, con uomini molto più maturi; il sentimento amoroso non era ritenuto un requisito necessario. A questo va aggiunto che l'uomo era padrone di disporre della donna a suo piacimento e legittimato ad usarle violenza.

Non conosciamo la conclusione della vicenda di Giulia Tofana, perché ad un certo punto se ne perdono le tracce. Una delle ipotesi della sua scomparsa vuole che la donna sia morta per cause naturali nel 1651, un'altra versione la vede reclusa in un convento o addirittura rinchiusa in carcere e sottoposta a tortura.

Circa un secolo dopo, durante il regno del Viceré Caracciolo, è in azione, sempre a Palermo, Giovanna Bonanno, passata alla tradizione come la "vecchia di l'acitu".
Era una vecchia mendicante che viveva di espedienti, girovagando per il quartiere della Zisa. Era definita da tutti "magara" (strega).
Un giorno si accorse che l'aceto per pidocchi, miscela di aceto e arsenico,, aveva causato un grave malore ad una bambina che, per errore, ne aveva bevuto un sorso.
Giovanna capì che quella era l'occasione giusta per dare una svolta alla sua vita e iniziò a vendere questo "liquore straordinario" a mogli infelicemente sposate.

Dai documenti processuali studiati da Salvatore Salomone Marino, risulta che la Bonanno fosse sinceramente persuasa di offrire un servizio socialmente utile a ridare serenità a molte donne.

La carriera dell'avvelenatrice fu stroncata da un banale errore: aveva venduto l'aceto ad una donna che, per vendetta, la denunciò.

Il 13 aprile 1789, la Regia Corte Capitanale di Palermo emise la sentenza definitiva: condanna a morte mediante impiccagione.
Prima di essere condotta al patibolo, due pittori la ritrassero con in mano le ampolle contenenti il veleno ed esposero il dipinto al pubblico.
Piazza Vigliena, nel cuore della città,fu allestita una forca altissima, a dimostrare che, per un reato così grave, era necessaria una grande altezza per separare l'anima dal corpo.

Il corpo della "vecchia dell'aceto" è seppellito in un cimitero, ormai non più visibile,fuori Porta di Vicari e un busto che la raffigura è custodito nel Museo Etnografico Siciliano Giuseppe Pitrè.


   




Museo Pitrè


Porta di Vicari
Busto Giovanna Bonanno








          Piera Denaro


N.d.A. Non è stato volutamente dato a questo "pezzo" un taglio scientifico, ma si è voluto solo raccontare di casi in cui la realtà storica si intreccia alla leggenda. Tali storie, che fanno parte delle nostre tradizioni, rappresentano un patrimonio culturale individuale e collettivo.

mercoledì 15 ottobre 2014

Giù le mani da Caino

La pena di morte risponde a criteri moderni di giustizia o ad un emotivo desiderio di vendetta della società?


Fino al '700, nessuno avrebbe messo in discussione il diritto dello Stato ad infliggerla, anzi essa rappresentava, con la sua spettacolarizzazione, un pubblico ammonimento.

L'illuminista Cesare Beccaria, con la pubblicazione nel 1764 del pamphlet Dei delitti e delle pene, 
 stimolò la riflessione sul sistema penale vigente, argomentando che lo Stato, infliggendo la pena di morte ad un individuo,per punire un delitto, ne avrebbe commesso un altro:"Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio". E definisce la pena di morte: "una guerra della nazione contro un cittadino perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere".
Beccaria,dunque,la ritiene inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile e, pertanto, deve essere sottratto  alla volontà del singolo e dello Stato.

Influenzati da pensatori come Beccaria,diversi stati italiani abolirono la pena di morte e l'Italia unita l'abolì, tranne che per crimini di guerra e regicidio, nel 1889. Fu poi reinserita con il Codice Rocco nel 1930, e abolita definitivamente nel 1948.

Importante capitolo della storia della pena di morte viene scritto il 18 dicembre 2007, quando l'ONU approva una risoluzione, su iniziativa italiana, per la moratoria universale della pena di morte, ovvero per una sospensione internazionale delle pene capitali.

In alcuni paesi, si assiste da qualche anno, anche in conseguenza dell'aumento del tasso di criminalità, ad un ritorno alle esecuzioni capitali. In California, in Texas e in altri stati USA si eseguono addirittura su minorati mentali e adolescenti, colpevoli di gravi crimini, ma essi stessi vittime di violenza esercitata da contesti domestici ed ambientali: famiglia, alcol, droga, miseria.

L' Organizzazione Non Governativa Nessuno tocchi Caino , lo scorso luglio a Roma, ha presentato il Rapporto 2014 sulla pena di morte. Dal rapporto risulta che la Cina detiene il primo posto per numero di esecuzioni capitali: 3000 sulle 4106 portate a termine in tutto il mondo. Seguono Iran e Iraq.

In Cina, oltre che per reati di terrorismo, in cui rientrano anche le forme di dissenso politico e religioso, che colpiscono spesso tibetani e uiguri, o per produzione e traffico di droga, si ricorre alla pena capitale anche per reati ordinari o per opposizione al potere.

I rilevatori denunciano condizioni di scarsa trasparenza degli USA nell'applicazione della pena .
Il rifiuto dell'UE a fornire prodotti chimici necessari per l'iniezione letale, ha causato difficoltà di approvvigionamento e conseguenti norme di segretezza sulle materie utilizzate.

Cosa è stato iniettato a Clayton Lockett, morto  fra indicibili sofferenze 43 minuti dopo l'inizio dell'esecuzione? E' successo in Oklahoma.


Anche in Italia la criminalità è in aumento e di fronte a casi di efferati delitti, certi settori dell'opinione pubblica si dichiarano favorevoli al ripristino della pena di morte, ritenuta efficace deterrente nei confronti del crimine, all'interno del nostro ordinamento giudiziario.

Le statistiche contraddicono i sostenitori di tale tesi, in quanto nei paesi in cui essa è applicata, persiste un altissimo tasso di criminalità. Che senso ha una condanna così disumana, se non produce risultati soddisfacenti?

Sandro Veronesi in Occhio per occhio, narra di un condannato, rimasto nel braccio della morte di una prigione della California per vent'anni. Pur essendo divenuto un individuo diverso da quello responsabile dei delitti imputatigli e totalmente inoffensivo per la società, viene mandato alla sedia elettrica, condannato innanzitutto dai mass media e dall'opinione pubblica.

A parte la possibilità dell'errore giudiziario, che con un'esecuzione capitale diverrebbe irreparabile, riteniamo che la giustizia debba dare ad ogni individuo possibilità di difesa, rieducazione e  reinserimento nella società e lo afferma l'articolo 27 della Costituzione Italiana: " Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Ci pare opportuno sostenere che, al di là di ogni azione repressiva, sia necessario mettere in atto una seria ed efficace politica di prevenzione, mediante un processo di eliminazione di condizioni di degrado sociale che,  inevitabilmente,  alimentano violenza, devianza e delinquenza.
La bonifica dei ghetti di periferia delle metropoli, la lotta alla droga, alla corruzione, alla disoccupazione, che fornisce manovalanza al crimine organizzato, devono essere immediati interventi finalizzati al risanamento della nostra società malata.

Dovremmo trasmettere ,soprattutto ai giovani, valori, modelli ed esempi in cui credere.

E questo è un problema...


Piera Denaro


lunedì 6 ottobre 2014

CATTIVE MADRI: LA PEDOFILIA FEMMINILE

Se ne parla e se ne scrive poco, ma non significa che la pedofilia femminile non esista.

Già, circa 2000 anni fa, Petronio nel suo Satyricon narrava di un gruppo di donne compiaciute ed eccitate davanti allo stupro di una bambina di sette anni.

Nel pensiero comune, il pedofilo è maschio, ma anche le donne sono capaci di abusare di bambini e adolescenti.

“Pensare che una donna possa essere un’abusante sessuale è raccapricciante, è sconvolgente perché la donna è associata all’idea di mamma. Teoricamente una madre non potrebbe mai danneggiare un bambino” dice Loredana Petrone, psicoterapeuta e sessuologa, esperta in prevenzione delle moderne forme di violenza, autrice con Mario Troiano del libro “E se l’orco fosse lei? Strumenti per l’analisi, la valutazione e la prevenzione dell’abuso al femminile .

Negli ultimi anni, il Web ha contribuito a portare in evidenza la diffusione di tale fenomeno. In rete, infatti, sono sempre più numerosi le immagini e i filmati pedopornografici che coinvolgono donne e madri. Proliferano anche comunità virtuali che offrono consigli per ottenere materiale e raggiungere minori .

La pedofilia femminile, come quella maschile, può annidarsi all’interno delle mura domestiche o rivolgersi all’esterno, scegliendo mete lontane, come luoghi ideali per l’adescamento.

Quella intrafamiliare, la più difficile da identificare, si cela dietro espressioni alimentate da ambigui rapporti di amore e di ostilità. In numerosi casi l’abusante è la madre e le statistiche di Telefono Azzurro ce lo confermano, anzi negli ultimi anni, in Italia, è salita la percentuale di abusi sessuali commessi in famiglia da parte di donne.

La pedofilia femminile, in forma di turismo sessuale, compare intorno agli anni ’70, quando donne americane e canadesi, favorite dall’emancipazione economica e motivate dalla ricerca di soddisfazione sessuale e appagamento materno, iniziano a raggiungere spiagge lontane alla conquista di beach boys e beach girls.

Oggi, mete delle nordamericane e delle europee sono Caraibi, Tunisia, Marocco, Kenya, Giamaica e Brasile. La Thailandia è preferita dalle giapponesi, Marrakesh dalle scandinave e dalle olandesi.
Dalla testimonianza di medici, che hanno curato piccoli abusati, sappiamo che ai bambini maschi, per rendere possibile l’atto sessuale, vengono iniettati ormoni e droghe nei testicoli.

Diverse le cause scatenanti di un comportamento pedofilo da parte di una donna: separazione, abbandono, eventi traumatici non elaborati e quindi, irrisolti. Tra le conseguenze più importanti di un trauma non risolto, è l’impulso e l’ossessione a reiterare l’evento.

Loredana Petrone e Mario Troiano individuano sei tipologie di pedofilia femminile:


       Pedofilia latente- La donna nutre morbosa attrazione per i bambini; ha fantasie erotiche che non si concretizzano, grazie all’ostacolo morale di cui è in possesso.

      Pedofilia occasionale - La donna, pur non avendo gravi distorsioni psicologiche, in situazioni particolari, come viaggi in Paesi con un forte tasso di turismo sessuale, si lascia andare ad esperienze sessuali trasgressive. Si tratta, in genere, di donne di età compresa tra i 40 e 50 anni, con un livello socio-culturale medio-alto, single o divorziate.


  Pedofilia immatura-La donna non è riuscita a sviluppare normali rapporti con i coetanei , mancando di una sufficiente maturità emotiva ed affettiva. Rivolge, pertanto, le sue attenzioni verso il bambino, dal quale non si sente minacciata.

Pedofilia regressiva- La donna, avvertendo un senso di inadeguatezza a vivere il quotidiano, regredisce ad una fase infantile. Sentendosi bambina, rivolge interesse sessuale verso i bambini.

   Pedofilia sadico-aggressiva- La donna trae piacere nel provocare dolore o morte. Alla base di questo comportamento c’è un bagaglio di aggressività, frustrazione ed un senso di svalutazione di se stessa e degli altri.

   Pedofilia omosex- La donna rivolge alla bambina l’amore non ricevuto dalla madre. Identificandosi con la piccola vittima, colma con l’abuso il vuoto affettivo.


Bisogna puntare l’attenzione e far luce su un fenomeno così grave e complesso, al fine di predisporre strumenti di prevenzione e tutela dell’integrità psico-fisica dei minori.

                                                                                                                                                    

 Piera Denaro