martedì 30 giugno 2015

SIAMO TUTTI MALVAGI?




L'esperimento della prigione di Stanford



Nel 1971 lo psicologo Philip Zimbardo organizza uno fra gli esperimenti più famosi di psicologia sociale.
L'esperimento nasce dalla volontà di indagare su che cosa può trasformare una "persona buona" in un individuo che commette atti malvagi.

"Sono le situazioni in cui veniamo posti a determinare il nostro comportamento?" si chiedono Zimbardo e il suo team di ricercatori.


Ai fini della ricerca viene simulata una prigione nei sotterranei della facoltà di Psicologia dell'Università di Stanford e vengono selezionati 24 studenti, senza precedenti penali e in buona salute fisica e psichica, per far loro assumere i ruoli di guardie e prigionieri.
La prigione includeva tre celle di 2 metri per 3 e ognuna di esse ospitava tre " prigionieri". Altre stanze venivano occupate dai "guardiani". Uno spazio angusto ospitava la cella di isolamento e uno, altrettanto minuscolo, serviva come cortile per l'ora d'aria.

L'esperimento

Gli studenti, futuri prigionieri, vengono prelevati dai dormitori universitari e scortati fino alla finta prigione. Viene  data da indossare una casacca numerata e sono poste catene alle caviglie. Alle guardie sono consegnati dei simboli di potere quali uniformi, occhiali riflettenti (in modo da non poter essere guardati negli occhi), manganelli, fischietti e manette.
L'obiettivo di Zimbardo consisteva nell'associare ad ogni ruolo un simbolo distintivo al fine di preparare il terreno ad un processo di disorientamento, depersonalizzazione e riduzione del senso di identità.

Nonostante l'esperimento fosse programmato per durare 14 giorni, si interrompe dopo 6 giorni

Dopo solo due giorni si verificano i primi episodi di violenza: i prigionieri si ribellano contro la loro carcerazione, strappandosi le divise e inveendo dalle celle contro le guardie che reagiscono schernendo e abusando i loro prigionieri. Questi vengono costretti a pulire le latrine a mani nude, a defecare in secchi e a simulare atti di sodomia.
Lo stesso Zimbardo ammette  di essersi immerso nel ruolo di "direttore della prigione", così come altri membri del team di ricercatori.
Dopo 36 ore i prigionieri mostrano chiari segni di disgregazione individuale e collettiva: docili e passivi, perdono ogni contatto con la realtà. Le guardie si identificano totalmente al loro ruolo, continuando a praticare comportamenti sadici e vessatori.
Al sesto giorno, dati gli esiti drammatici, Zimbardo interrompe l'esperimento.
I prigionieri si mostrano sollevati e contenti della conclusione anticipata, invece le guardie molto insoddisfatte.

L'effetto Lucifero


Zimbardo nel suo saggio del 2007, pubblicato in Italia nel 2008,"Effetto Lucifero" : " L'idea che un abisso invalicabile separi le persone buone da quelle cattive è consolante per almeno due ragioni. Anzitutto, crea una logica binaria, in cui il Male è essenzializzato. La maggior parte di noi percepisce il Male come un'entità, una qualità intrinseca di certe persone e non di altre [...]Inoltre, sostenere che esiste una dicotomia Bene-Male assolve le"persone buone" dalla responsabilità. Le libera dal dover prendere anche soltanto in considerazione il loro possibile ruolo nel creare, difendere, perpetuare o ammettere le condizioni che contribuiscono alla delinquenza, al crimine, al vandalismo, alle molestie, al bullismo, allo stupro, alla tortura, al terrore e alla violenza".


Nelle nostre società occidentali è radicata la convinzione che i comportamenti siano sempre il risultato delle disposizioni interiori degli individui, sottovalutando il peso delle situazioni in cui questi si trovano ad agire.

La tesi situazionale, sostenuta da Zimbardo, porta invece a considerare determinante la situazione sociale in cui ci si trova collocati . Tale situazione può portarci ad agire in maniera difforme a quelli che sono i valori e i comportamenti abituali.
Si può allora affermare che il male è l'esercizio del potere sugli altri in una situazione in cui non ci si sente responsabili delle proprie azioni.


Chi non ricorda Abu Ghraib, la prigione di Baghdad?








Il caso si verificò nel 2004, quando vennero pubblicate fotografie che ritraevano soldati statunitensi mentre torturavano sistematicamente e sadicamente i prigionieri iracheni.
Ad esaminare e valutare le immagini, delle quali la maggior parte non fu pubblicata per l'impressionante crudezza, fu chiamato proprio il professore Philip Zimbardo.



L'esperimento di Stanford, pur attirando diverse critiche di ordine etico, resta un episodio fondamentale per comprendere come una situazione possa influenzare il comportamento umano: gli abusi nella prigione irachena di Abu Ghraib e quelli che si verificano, anche a nostra insaputa, sono esempi reali dello studio di Zimbardo.

La prigione di Standford ha ispirato altri studi, saggi, opere teatrali e, soprattutto, films, fra i quali ultimo nato è "The Standford Prison Experiment" del regista americano Kyle Patrick Alvarez.

domenica 28 giugno 2015

Malattia mentale e processo creativo

Vincent Van Gogh "Campo di grano con volo di corvi" 1890



Esiste una connessione fra malattia mentale e processo creativo?
In che rapporto e fino a che punto genio e follia possono coesistere?


Non si può negare che il legame fra arte e patologia sia un percorso di ricerca sempre aperto, se consideriamo che da oltre due secoli scienziati, neurologi, psichiatri e filosofi mostrano una marcata attenzione per le espressioni artistiche in ogni loro manifestazione.

Accostare il genio creativo alla follia distruttiva è cosa ardita: il primo crea bellezza, il secondo genera orrore.

Può esistere un punto di contatto fra due individualità così diverse?

L'anello di congiunzione risiede nella convinzione di entrambi che la loro opera sia una creazione.
Un folle assassino, ad esempio, considera i suoi omicidi il frutto della sua creatività distorta, una forma d'arte perversa che soddisfa, in maniera patologica, il bisogno di creare qualcosa di immortale.
Non è un caso se gli assassini, in prigione, quando non possono più uccidere, si dedichino all'arte, soprattutto alla pittura e alla scrittura.

Cesare Lombroso, padre dell'Antropologia Criminale, già nel 1864 scriveva nel suo saggio "Genio e follia": "E chi alla lettura di queste belle pagine può dubitare che vi siano casi in cui la pazzia dà agli intelletti volgari un lievito sublime che li solleva dal livello comune?" .

Secondo Lombroso esiste un forte nesso fra genialità, creatività e combinazioni psicobiologiche borderline, supportato da una gran quantità di dati biografici relativi a "molti uomini d'ingegno": "Ed infatti moltissimi uomini d'ingegno ebbero parenti o figliuoli epilettici, idioti o maniaci[...] Né fu raro il caso in cui quelle cause, pur sì frequenti, dell'alienazioni, che sono le malattie e i traumi del capo, mutarono, invece, in uomo di genio un'esistenza più che volgare. Vico cadde da una scala altissima, nell'infanzia, e n'ebbe fratturato il parietale destro. Gratry, mediocre cantore, da prima, divenne famoso maestro dopo che una trave gli fracassava la testa".

Stando all'opinione di Lombroso, la personalità artistica è particolarmente propensa al crimine, come  scrive nel suo testo cardine "L'Uomo delinquente".





Lo psichiatra francese Edouard Lefort pubblica nel 1892 "Le type criminal d'apres les savant et les artistes (Il tipo criminale secondo gli scienziati e gli artisti).

Lo scienziato, passando in rassegna la riproduzione di famosi quadri della scuola italiana, fiamminga, spagnola, francese, rileva che nell'iconografia religiosa i violenti, gli omicidi, i carnefici, i dannati hanno fisionomie ripugnanti o brutali, che riprendono le caratteristiche del tipo criminale: testa grossa, occhi piccoli, mascelle grandi e quadrate, fronte stretta, zigomi sporgenti, tanto da affermare che "il tipo criminale intuito da Lombroso ha un perfetto riscontro nell'opera artistica di molti secoli".

Enrico Ferri, appartenente alla "scuola lombrosiana", sottolinea nel 1896 il contatto immediato fra scrittori, poeti ,pittori ed il mistero del male: "La verità è che il crimine, nei suoi due aspetti, colui che lo compie, colui che lo subisce, è dolore: l'artista che possiede la sensibilità cosmica di percepire e raccogliere, ne è investito".

Per Ferri sono la letteratura e il dramma ad aver prestato maggiore attenzione ai "tipi criminali".

Riferimento obbligato è William Shakespeare: "Macbeth è il tipo completo del delinquente nato, ramo doloroso e mostruoso che sorge dal tronco patologico della nevrosi epilettica e criminale" e "Amleto, invece, è un tipo genialmente delineato di delinquente pazzo, in una di quelle forme lucide o ragionamenti che sono lontani, certo, dall'osservazione comune", mentre Otello identifica il delinquente passionale.

L'interesse per la relazione arte-patologia hanno segnato a lungo i percorsi della scuola criminologica italiana, tant'è che il fisiologo Mariano Patrizi scrive un saggio dominato da una lettura patogenetica di Giacomo Leopardi, ed uno su Caravaggio, esempio di "pittore criminale".

Lo sviluppo delle neuroscienze ha ridato linfa vitale allo studio neurologico della creatività artistica.
Gli esiti della ricerca sembrano confermare la presenza di fattori neurologici comuni alla genesi creativa e ad alcune forme di sofferenza psichica.

Andreas Fink, neuroscienziato dell'Università di Graz: "Sulla base di questi risultati potremo concludere che i medesimi tratti di personalità e cognitivi possono essere piuttosto simili fra le persone creative e persone sofferenti di forme moderate di disturbi mentali[...]si può ipotizzare che tanto gli individui predisposti alla psicosi che quelli altamente creativi, includono nei loro processi mentali molti più stimoli e categorie di quanto non facciano le persone meno creative, il che potrebbe essere visto anche come una sorta di interruzione dei meccanismi di filtro, che sono preposti a bloccare gli stimoli per facilitare l'efficienza del processo di elaborazione delle informazioni". In accordo con ciò "individui altamente creativi e persone sofferenti di patologie psichiche appaiono contraddistinti in parte dall'abilità di percepire e descrivere ciò che rimane nascosto alla vista degli altri".

Vale la pena ricordare che nel 1999 il neurologo britannico Semir Zeki, introduce il termine neuroestetica, sostenendo un possibile sviluppo di un campo di conoscenza riferita all'aspetto biologico dell'esperienza estetica.


Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco, analizza in un saggio del 1922 "Genio e follia" il rapporto esistente tra la schizofrenia e la genialità, proponendosi di capire perché, nelle espressioni più alte, arte e follia coincidono.



Jaspers analizzò dettagliatamente la vita di Van Gogh al fine di fornire un'immagine della coesistenza di pazzia e genialità nella vita di questo artista.

Il 1888 coincide con l'inizio della malattia: le allucinazioni insopportabili si verificano in concomitanza con il "furor" creativo dell'artista che lavora convulsamente alle proprie tele.

I quadri rappresentano paesaggi dove tutto è tormento: la terra pare sollevarsi come onde, gli alberi sembrano fiamme, il cielo pulsa, le tinte sono ardenti, crude ed intense.

Nello stadio finale della malattia che avrebbe ben presto condotto l'artista al suicidio, i quadri sono dipinti con colori ancora più stridenti, aumentano gli errori prospettici.

Con l'eccitazione pare venir meno il controllo interiore, la tecnica diventa più grossolana.
In questo periodo Van Gogh scrive: "Mi sento alla fine, alla resa dei conti. E' il mio destino, devo accettarlo, non cambierà...il futuro è oscuro, non vedo un avvenire felice.

Anche in letteratura abbiamo casi di "geni folli". Edgar Allan Poe presenta una dissociazione mentale alterata dall'uso di sostanze stupefacenti , come il laudano.



Poe soffre di uno stato di alterazione psichica dovuto ad un trauma infantile: la morte di tisi della madre.

Maria Bonaparte, psicoanalista e scrittrice, nella sua lettura psicoanalitica di Poe, sostiene che l'artista abbia tentato invano di sfuggire al ricordo della malattia e della morte della madre ma "per quanto tirasse la catena non riusciva a spezzarla".

Poe sposa una donna malata di tisi, ma quando la moglie comincia ad assomigliare troppo alla madre defunta, egli viene colto da terrore e si rifugia nella scrittura. L'artista si crea un proprio mondo visionario in cui domina la morte, svelamento dell'inganno della realtà.

"Gli uomini mi hanno definito pazzo, ma non è ancora ben chiaro se la pazzia sia o non sia la più alta forma di intelligenza e se le manifestazioni più meravigliose e più profonde dell'ingegno umano non nascano da una deformazione morbosa del pensiero, da aspetti mentali esaltati a spese dell'intelletto normale ( E.A.Poe).









domenica 21 giugno 2015

Il malato inguaribile (parte terza)

                         









                    Danilo Restivo: un caso"tutto italiano"                                    

A Potenza lo chiamavano “il parrucchiere” per la sua ossessione di tagliare di nascosto, preferibilmente in autobus, le ciocche di capelli alle ragazze: possesso compulsivo di un feticcio femminile.

E’ noto anche per l’abitudine di importunare le ragazze, di cui si invaghisce, con telefonate mute seguite dalla colonna sonora del film “Profondo rosso” o dalla melodia “Per Elisa”.
Restivo tenta di ottenere, con la scusa di offrire piccoli doni, appuntamenti dalle ragazze da cui è attratto, diventando aggressivo e violento al rifiuto dei suoi approcci.



                     L’incontro con Elisa Claps





La mattina del 12 settembre 1993, incontra nella Chiesa della SS. Trinità a Potenza, Elisa Claps, studentessa sedicenne, al momento della scomparsa.

Dalle indagini risulta che l’ultima persona ad averla vista è Danilo Restivo, subito sospettato dagli inquirenti per avere un ruolo di primaria importanza nella scomparsa della ragazza.

Motivo del sospetto: Restivo tenta maldestramente di ricostruire, in maniera convincente, i suoi spostamenti dopo l’incontro.

Un sospetto che cade nel vuoto. E dire che tanti indizi e possibili prove puntavano il dito sull’uomo, a cominciare dai vestiti sporchi di sangue, il sangue di Elisa.
Nessuno ha richiesto, per esaminarli,  gli abiti indossati il giorno della scomparsa? O qualcuno si è rifiutato di consegnarli?
Per anni i familiari di Elisa chiedono insistentemente, ma senza esito, anche attraverso programmi televisivi, di indagare a fondo su Restivo e di effettuare accurati sopralluoghi nella Chiesa della SS. Trinità.

IL 17 marzo 2010, vengono ritrovati i resti della giovane nel sottotetto della chiesa, dove Elisa aveva incontrato il suo carnefice.




                   Danilo Restivo in Inghilterra


Durante gli anni delle “cosiddette indagini” sulla scomparsa di Elisa, il ragazzo di “buona famiglia” è lontano, spedito dagli accorti genitori oltremanica.

Nel 2002 “il parrucchiere” approda in Inghilterra, dove porta i suoi demoni.
Da qualche tempo, a Bournemouth, dove vive e si è sposato, si verificano episodi in cui vengono tagliate ciocche di capelli a ragazze, che riconoscono in Restivo l’autore del gesto.


              L’assassinio di Heather Barnett




Il 12 novembre 2002, a Bournemouth, si consuma un feroce delitto: la vittima è una vicina di casa del Restivo, Heather Barnett, quarantotto anni, sarta, madre di due figli.

La donna, trovata riversa nel bagno, martoriata ed orrendamente mutilata, tiene nelle mani due ciocche di capelli: una appartenente alla vittima, l’altra ad una persona non identificata.

I sospetti cadono immediatamente su Restivo, il quale il 30 giugno 20011 viene condannato all’ergastolo dalla Crown Court di Winchester per l’assassinio della Barnett.

Nel pronunciare la sentenza, in cui si afferma che, senza ombra di dubbio, Restivo ha ucciso anche Elisa Claps, il giudice Michael Bowes così si rivolge all’assassino: ”Lei non uscirà mai di prigione(…)Lei è recidivo. E’ un assassino freddo, depravato e calcolatore(…)che ha ucciso Heather come ha fatto con Elisa. Ha sistemato il corpo di Heather come fece con quello di Elisa. Le ha tagliato i capelli, proprio come a Elisa (…)Merita di stare in prigione per tutta la vita”.



                Forse una terza vittima e un innocente in carcere




Su Danilo Restivo si addensano pure i sospetti dell’assassinio di Joung-Ok-Shin, una studentessa sudcoreana di ventisei anni, uccisa il 12 luglio 2002 a Charminster, sobborgo di Bournemouth.
Per questo omicidio, nel 2005, viene dichiarato colpevole e condannato all’ergastolo Omar Benguit.
Il caso è stato riaperto e richiuso più volte, ma Omar Benguit si trova ancora in carcere, presunto innocente, a parere di molti.

Oki, così chiamavano la vittima, viene uccisa da un uomo che indossava un passamontagna, particolare fornito dalla stessa studentessa prima di spirare. Solito modus operandi e stessa firma: un paio di forbici come arma del delitto, taglio di una ciocca di capelli.

Da quanto è possibile apprendere, la polizia inglese, nel corso di una perquisizione nell’abitazione del giovane potentino, rinviene un diario. Tra le pagine, attaccate con nastro adesivo, ciocche di capelli di diverso colore.

E ancora prima degli omicidi della Barnett e di Oki, la polizia aveva fermato, in un parco pubblico, il Restivo per un controllo. L’uomo portava con sé uno zainetto contenente un passamontagna, un paio di forbici e guanti di plastica.


                La famiglia Restivo






Di Restivo è stato detto e scritto tanto. Della sua personalità oscura e complessa, della sua famiglia, dei suoi comportamenti, a dir poco inquietanti, quando era ancora un ragazzino.

Danilo è figlio di Maurizio Restivo, un notabile della città di Potenza, nipote di un esponente di primissimo piano della Democrazia Cristiana. In città viene descritto come un uomo superbo e dalla forte e carismatica personalità.

A Potenza si riferiva spesso dei comportamenti “fuori dall’ordinario” del giovanissimo Danilo.
Da ragazzo lavorava presso una ditta di disinfestazione ambientale. Per bocca di un suo collega, licenziato per queste dichiarazioni, si apprende che il giovanissimo Danilo era solito urlare, in preda al panico, richieste d’aiuto durante la notte.
Sempre lo stesso collega riferisce dell’impellente necessità del giovane di sottoporsi a lunghe docce, a qualsiasi ora del giorno, anche in piena notte, quasi volesse smacchiarsi da un senso di colpa o da qualcosa che lo turbava.

Si racconta a Potenza che Danilo, ancora bambino, avesse ferito non lievemente “per gioco” un coetaneo. I genitori del bambino ferito denunciano l’accaduto, ma poco tempo dopo, grazie all’intervento tempestivo del padre Maurizio, tutto svanisce in una bolla di sapone.

Due fratelli, sempre a Potenza, raccontarono che qualche mese prima della morte di Elisa Claps, Danilo, per gioco, li avesse legati ad un albero per un’intera notte, infastidendoli con la punta di un coltello.


Se la famiglia Restivo avesse preso coscienza delle condizioni mentali di Danilo, invece di insabbiarne i comportamenti, Elisa, Heather e chissà quante altre vivrebbero ancora.

Questa è una brutta storia di provincia: una rete di silenzi, coperture, connivenze si è estesa attorno al ragazzo, proteggendolo oltre ogni decenza e ogni buonsenso.



    Il ritrovamento di Elisa


Il 17 marzo 2010 i resti di Elisa Claps vengono ritrovati nel sottotetto della Chiesa della SS. Trinità. Sembrerebbe scoperti casualmente da alcuni operai, durante dei lavori di ristrutturazione.

Il ritrovamento sarà giudicato dai familiari una messinscena, ritenendolo avvenuto in precedenza e tenuto nascosto dal parroco della chiesa, don Mimì Sabia, poi deceduto.

Gildo, fratello di Elisa, ricorda che nel 1996, proprio nel sottotetto della chiesa, si erano tenuti dei lavori durante i quali l’impresa appaltatrice ”incernierò dei cassettoni proprio in corrispondenza del cadavere di mia sorella. Ridicolo pensare che nessuno abbia mai visto niente”.
Particolare da non sottovalutare: accanto al cadavere di Elisa, uccisa a colpi di forbici, viene ritrovato un bottone rosso, compatibile con un bottone da abito cardinalizio.

Danilo Restivo il 24 aprile 2013 viene condannato a trent’anni, e non all’ergastolo, per l’assassinio di Elisa Claps, in quanto i “reati concorrenti”, violenza sessuale e occultamento di cadavere, che avrebbero potuto far scattare l’ergastolo, erano caduti in prescrizione per la lunghezza delle indagini.
Tornerà in Inghilterra a scontare il suo ergastolo, dopo essere stato estradato temporaneamente  in Italia per presenziare al processo.


“Condotte di inquinamento probatorio imputabili a famigliari e terzi” scrive il GUP Elisabetta Boccassini nella sentenza di condanna a carico di Danilo Restivo.
La famiglia Restivo, sempre a quanto scrive la Boccassini, ha avuto un ruolo centrale, un ruolo di totale copertura.

Negli anni in cui le indagini non registravano alcun progresso, Felicia Genovese, PM di Potenza e titolare dell’indagine, viene indagata dalla Procura di Salerno, competente per i magistrati di Potenza, in quanto sospettata di aver insabbiato il caso. Viene prosciolta, ma il caso Claps passa di competenza dalla Procura della Repubblica di Potenza a quella di Salerno.


Tobias Jones, autore di “Sangue sull’altare”, scrive che il padre di Danilo Restivo teneva contatti telefonici con Felicia Genovese, il cui marito era un massone come lui.
Sempre secondo Jones, il silenzio dei potenti in questa storia è stato sconvolgente, e riferisce l’esempio del senatore a vita Emilio Colombo che, pur assiduo frequentatore della Chiesa della SS. Trinità, non si espresse mai in pubblico né sulla scomparsa di Elisa né sul ritrovamento del cadavere.


Perché nella chiesa in cui Elisa sparì non ci furono mai sopralluoghi? Perché non furono mai “messe alle strette” i sacerdoti di quella parrocchia? Perché i vestiti macchiati di sangue del principale sospettato non furono sequestrati? Perché l’amica che accompagna Elisa all’incontro con Danilo, non riesce a collaborare con la giustizia? Perché qualcuno testimoniò di aver visto Elisa, quando la ragazza era già morta, tentando di insinuare l’allontanamento volontario? Perché ai ” giochi ingenui” di Danilo non fu mai attribuita la giusta pericolosità? Perché tutte le denunce a suo carico cadevano sempre nel nulla?




                Anna Esposito: un suicidio anomalo




Anna Esposito, Commissario di Polizia di trentacinque anni, nel 2001 viene trovata impiccata alla maniglia della porta del bagno, nel suo appartamento a Potenza.
Il caso viene immediatamente archiviato come suicidio. Sulla relazione dei medici legali si legge una singolare definizione: “impiccamento atipico incompleto”.

Fortunatamente, dietro le pressioni della famiglia di Anna, nel 2013 si torna ad investigare, date le troppe falle della precedente indagine, non esclusa la testimonianza decisiva di Don Vignola, cappellano della Questura  che il giorno della scomparsa di Elisa, aveva celebrato messa alla Trinità in sostituzione di Don Mimì Sabia, partito per Fiuggi.
Don Vignola sembra conoscere particolari riservati della vita dell’Esposito, come altri tentativi di suicidio, ma non sembra un testimone attendibile: racconta e omette a seconda dell’interlocutore.

Nel 2000 Anna Esposito avrebbe confessato ad un familiare: ”Qualcuno in questura sa dove si trova il corpo di Elisa Claps” .

Forse Anna era ad un passo dalla verità sulla morte di Elisa, tanto da aver chiesto a Gildo Claps, un incontro, fissato per il pomeriggio del 12 marzo 2001, a cui non si presenterà perché morirà poche ore prima “per impiccamento atipico incompleto”.
Strana scelta quella del momento del suicidio: Anna si stava preparando per recarsi ad una festa, sul letto, pronti per essere indossati, stavano abito nero, calze nere e scarpe eleganti.

Benché il colpevole dell’omicidio di Elisa Claps sia stato assicurato alla giustizia, ancora oggi sulla vicenda permangono ombre e domande ancora in cerca di risposta.

Un caso “tutto italiano”.



                                        BIBLIOGRAFIA


·         V.M. Mastronardi- R. De Luca , I serial killer Newton, Compton Editori, Roma, 2014


·         R. De Luca,  Anatomia del serial killer, Giuffrè, Milano, 2001


·         M. Malagoli Togliatti-L. Rocchietta Tofani, Famiglie multiproblematiche, NIS, Roma, 1975


·         M. Newton, Serial Slaughter: What’s Behind America’s Murder Epidemic , Loompanics, Washington, 1992

·         F. Bruno, Inquietudine omicida, Phoenix, Roma, 2000


·         M. Newton, Hunting Humans: An Encyclopedia of Modern Serial Killers, Loompanics, Washington, 1990


·         U. Cubeddu,  Ergastolano in permesso, l’incubo del serial killer, in “Il Messaggero” 6 settembre 2000


·         R. De Luca, L’omicidio seriale in Europa, Presentazione di Eskidab, la Banca Dati Europea sui Serial Killer


·         G. Bianconi Violenze, bugie e trame in carcere. Una vita dal massacro ai depistaggi in “Corriere della Sera” 1 maggio 2005


·         M. Serri,  Izzo e gli altri. Perché è così difficile capire se dentro sono rimasti dei mostri in “Corriere della Sera Magazine”, n. 19, 12 maggio 2005


·         V. Andreoli, Chi ha fallito in “Io Donna” n. 20, 14 maggio 2005


·         F. Sciarelli- G. Claps, Per Elisa: Il caso Claps. Dodici anni di depistaggi, silenzi , omissioni Rizzoli, 2011


·         P. Maurizio, L’uomo che amava uccidendo. La storia di Danilo Restivo, Koinè Nuove Edizioni, 2012


·         Sicilia Informazioni, Caso Claps: Chi è Danilo Restivo? Archivio storico,20 maggio 2010


·         T. Jones, Sangue sull’altare , Il Saggiatore, 2012



·         F. Amendolara, Il segreto di Anna, EdiMavi, 2014

venerdì 19 giugno 2015

Il malato inguaribile (parte seconda)



Trattamento terapeutico degli assassini seriali e cause di insuccesso


                        I trattamenti terapeutici

Riguardo al trattamento terapeutico del serial killer emergono due linee opposte.

Se da una parte viene considerato possibile un trattamento ed un reinserimento dell’assassino seriale all’interno della società, dall’altra viene ritenuta impossibile una risocializzazione.

La prima posizione è sostenuta in Paesi come il Canada, la Scandinavia, la Germania e l’Inghilterra; la seconda è sostenuta , in particolare, dagli Stati Uniti.

Secondo Anderson e Dubner, infatti, i serial killer “sono destinati ormai a continuare ad uccidere”.


In Italia è ancora sottostimata l’entità del fenomeno, infatti la preoccupazione principale degli operatori riguarda la diagnosi e non un piano terapeutico. I trattamenti finora sperimentati sono stati effettuati su psicopatici e criminali sessuali, ma per i serial killers non è mai stata formulata un’ipotesi di trattamento mirato.

Gli studiosi americani, partendo dal presupposto che i crimini vengono compiuti per anomalie fisiologiche, hanno dato grande spazio ai trattamenti organici: tecniche neurochirurgiche, castrazione chirurgica e chimica, terapia psicofarmacologica.
In effetti, i trattamenti effettuati su criminali sessuali sembrano aver ridotto il tasso di recidiva(Marshall e Pitners).

I suddetti trattamenti, a nostro modesto parere , poco si adattano ad un assassino seriale, in quanto, pur riducendo l’impulso sessuale, non sono in grado di modificare ossessioni e distorsioni.

Dall’analisi della letteratura non si evince alcuna documentazione scientifica sul trattamento psicoanalitico, ma, a parere di alcuni studiosi del calibro di A. Bonifazi, R. De Luca e B. Giambra, un tale approccio terapeutico sarebbe utile se integrato a terapie comportamentali, cognitive e farmacologiche.





      Cause di insuccesso nel trattamento di un omicida seriale


Gli unici esperimenti di trattamento di cui ci giunge notizia, riguardano gli Stati Uniti e tutti sono pervenuti ad esiti negativi.
Nelle carceri, in generale, l’approccio utilizzato con gli assassini seriali è sempre stato quello comportamentale, dal momento che l’obiettivo primario dei sistemi penali è rendere accettabile il comportamento del detenuto al fine di una gestione più serena e meno conflittuale della vita carceraria.
Tale approccio, se risulta efficace con i pazienti “normali”, risulta, invece, del tutto inefficace sui serial killers, in quanto crea un’aderenza alle regole terapeutiche di breve durata e non procura cambiamenti stabili.

Newton elenca numerose cause di insuccesso terapeutico:

·         Le prigioni sovraffollate provocano sul detenuto, che cova al suo interno pulsioni e aggressività, uno stress continuo che può annullare gli effetti benefici di una possibile terapia.
·         Un detenuto può sperare di lasciare il carcere dopo pochi anni, anche se deve scontare una pena lunga. Non sono certamente pochi i casi in cui un assassino seriale, venga rilasciato dopo poco tempo dalla condanna, perché giudicato non “socialmente pericoloso”. Invariabilmente è tornato ad uccidere.

·         Ospedali psichiatrici ed istituti preposti alla cura delle malattie mentali non possiedono sufficienti fondi per impostare un piano terapeutico personalizzato per ogni paziente. L’operatore che sottopone il detenuto ad un trattamento, può erroneamente giudicarlo guarito ed esprimere parere favorevole alla commissione che esamina le istanze di liberazione anticipata.

Bisogna, però, tenere in dovuta considerazione, che i serial killers sono abilissimi manipolatori, capaci di mostrarsi miti e inoffensivi, per periodi di tempo molto lunghi, ad operatori di scarsa esperienza nel campo della psicologia criminale.




             Insuccessi italiani



Non mancano in Italia casi di assassini rimessi in libertà, per sconti di pena o permessi-premio concessi incautamente.

Ne riportiamo qualcuno:


Salvatore Avvantaggiato


Viene condannato all’ergastolo nel 1977 per aver ucciso a martellate una donna, durante un furto in appartamento. Avvantaggiato si mostra in carcere un detenuto modello, a tal punto che, come previsto dalla legge, dopo dieci anni di detenzione, comincia ad usufruire  di permessi-premio.
Durante l’ultimo permesso nel 2000, Avvantaggiato si reca a casa di una prostituta e, durante un raptus, la uccide, sfondandole il cranio a martellate.
Si sospetta che l’assassino, nelle precedenti uscite, avvenute nell’arco di dodici anni, abbia potuto uccidere altre donne con le medesime modalità.

Primo Bisi

Nel 1963 sorprende la moglie in compagnia dell’amante e uccide quest’ultimo, colpendolo ripetutamente alla testa con una spranga di ferro.
Condannato a quattordici anni di carcere, torna libero nel 1975. Per venticinque anni conduce una vita irreprensibile. Nel 2001 scopre la nuova moglie con un amante e spara, uccidendoli entrambi.

Sergio  Natalini

Operaio edile. Tre zii paterni ricoverati in manicomio per schizofrenia ed egli stesso sofferente di ritardo mentale ed epilessia.
Natalini uccide tre donne con le quali ha una relazione. Nel 1974 uccide la prima donna sparandole alla testa e si costituisce. Viene condannato a dodici anni di carcere, ma ottiene la libertà vigilata per “buona condotta” dopo cinque anni.
Nel 1983 si invaghisce di una donna, la quale si rifiuta di vivere con lui. Le taglia la gola e viene condannato a ventuno anni di carcere, poi ridotti a diciotto in appello, per omicidio volontario, più altri tre da trascorrere nell’OPG di Aversa.
Natalini ottiene due licenze premio e, durante la seconda, si innamora di una donna che lo respinge. Al rifiuto di lei, la strangola.
Questa volta viene condannato all’ergastolo, dopo che una perizia psichiatrica lo definisce afflitto da un “disturbo esplosivo ad intermittenza”.






Un caso clamoroso: Angelo Izzo





Angelo Izzo: il “Mostro del Circeo”.

Insieme a due amici, Gianni Guido e Andrea Ghira, invita in una villa del Circeo, due ragazze, Rosalia Lopez, che sarà violentata e uccisa, e Donatella Colasanti, che si salverà fingendosi morta.

Izzo, condannato all’ergastolo, mette in atto, da questo momento, un progetto di manipolazione del nostro sistema giudiziario, al fine di migliorare la sua posizione detentiva.

Durante il processo per la strage di Piazza Fontana, fornisce informazioni che, in un secondo tempo, si riveleranno infondate.
Grazie a questa collaborazione con la giustizia, ottiene permessi premio, l’ammissione al lavoro esterno e la semilibertà.

Nel 2003, durante il regime di semilibertà, Izzo conosce il pastore evangelico Dario Saccomanni, che si occupa del recupero dei detenuti, ed è presidente della cooperativa “Città futura”, dove Izzo lavora.
Apparentemente, il “Mostro del Circeo” mostra zelo, divenendo punto di riferimento per i giovani in difficoltà che si rivolgono alla cooperativa, nella realtà il suo obiettivo consiste nel soddisfacimento di un ossessivo bisogno di onnipotenza e manipolazione.

A Campobasso, nel 2005, dopo trent’anni, Izzo torna ad uccidere: le vittime ancora due donne, madre e figlia.
Il duplice delitto risulta premeditato, non il frutto di un improvviso raptus.

Dichiarazione dell’assassino: ”Sentivo la violenza che veniva fuori. E provavo il desiderio di uccidere di nuovo, per questo l’ho fatto. Se non fossero state le due donne, avrei ucciso qualcun altro”.




Riteniamo che, a questo punto, si ponga il problema delle “misure alternative”.


Sono di indubbia utilità, ma l’applicazione di esse non dovrebbe essere estesa a soggetti psicotici e con tendenze manipolative.

Il problema vero e proprio riguarda il metodo di valutazione utilizzato per individuare i detenuti, ai quali concedere le misure alternative.

Vittorino Andreoli, psichiatra e perito, ha affermato, in più di un’occasione pubblica, che diventa molto difficoltoso valutare la personalità di un soggetto recluso in carcere perché “psichiatri e psicologi, per mettere sulla bilancia ciò che va e ciò che non va, hanno a disposizione tre, quattro incontri di circa un’ora. Desolante. Si può fare un’analisi di chi si vede così, al volo? E poi, durante questi abboccamenti, c’è anche una marea di moduli da compilare. Per di più queste conversazioni in cui è difficile stabilire un benché minimo feeling, avvengono sotto gli occhi di un secondino. Con il detenuto che, ovviamente, è pronto a mostrarsi nella sua veste più appetibile”.

Per quanto concerne, poi, le comunità di recupero, all’interno delle quali lavorano i detenuti, sono spesso controllate da religiosi che vogliono vedere, a tutti i costi, “il bene presente nell’animo umano” continua Andreoli.
A ciò bisogna aggiungere che vi lavorano volontari senza alcuna preparazione utile a riconoscere psicopatia e processi di manipolazione.


Nel sistema anglosassone, una diversa procedura fornisce la possibilità di un esame più approfondito dei detenuti, ai fini della concessione di misure alternative.

Il soggetto da valutare viene trasferito in una speciale residenza dove rimane, per quindici giorni, a disposizione degli psichiatri, affinché possa instaurarsi un reale rapporto con gli operatori da consentire una più oculata valutazione.
Tale procedura non è certo esente da errori, ma almeno riduce il rischio di recidiva, evitando la valutazione di un detenuto solo in base ai suoi atteggiamenti esteriori.












martedì 16 giugno 2015

Il MALATO INGUARIBILE ( parte prima)

    
            Insuccessi terapeutici sui serial killer e divagazioni sul tema






Proprio l'imperiosità del comando "non uccidere" ci assicura che discendiamo da una serie lunghissima di generazioni di assassini, i quali avevano nel sangue, come forse ancora abbiamo noi stessi, il piacere di uccidere. Sigmund Freud


                                                                  
                                       Definizione di serial killer


Moltissimi autori, negli ultimi anni, hanno approfondito la definizione e la descrizione di serial killer.

In questa sede, riportiamo la definizione di Ruben De Luca, in quanto, a nostro parere, ci guida alla comprensione di un fenomeno tanto complesso: ”L’assassino seriale è un soggetto che mette in atto personalmente due o più azioni omicidiarie separate tra loro oppure esercita un qualche tipo di influenza psicologica affinché altre persone commettano azioni omicidiarie al suo posto. Per parlare di assassino seriale, è necessario che il soggetto mostri una chiara volontà di uccidere, anche se poi gli omicidi non si compiono e le vittime sopravvivono: l’elemento centrale è la ripetitività dell’azione omicidiaria. L’intervallo che separa le azioni omicidiarie può andare da qualche ora a interi anni e le vittime coinvolte in ogni singolo episodio possono essere più di una. L’assassino seriale agisce preferibilmente da solo, ma può agire anche in coppia o come membro di un gruppo. Le motivazioni sono varie, ma c’è sempre una componente psicologica interna al soggetto che lo spinge al comportamento omicidiario ripetitivo. In alcuni casi, vanno considerati assassini seriali anche i soggetti che uccidono nell’ambito della criminalità organizzata, i terroristi, i soldati”.


                         Gli omicidi seriali nel mondo e il “numero oscuro”

Fino a pochi anni fa, non esistevano né studi né statistiche affidabili. Solo recentemente, è stata avviata una ricerca che colloca l’Italia al terzo posto, per numero di serial killer, dopo USA e UK. Necessita, però, tenere presente il problema del cosiddetto “numero oscuro”.

Il “numero oscuro” è costituito da quei casi che non vengono registrati dalle agenzie di controllo e, quindi, non rientrano nelle statistiche ufficiali.

Molti serial killers tendono, infatti, a confessare di aver commesso più omicidi di quanti ne abbiano commesso in realtà. Tale falsa dichiarazione è motivata da narcisismo, dal voler dare più importanza alla propria figura. Altri, invece, rivelano i nomi delle vittime ad intervalli periodici, in modo da rallentare le indagini e, soprattutto, tenere alto l’interesse dei massmedia.

Altro problema riguarda il “copycat serial murder”, omicidio seriale per imitazione. Ci si trova davanti a questo fenomeno, quando un soggetto instabile, seguendo attraverso i massmedia un caso di omicidio seriale, si identifica nell’assassino tanto da imitarne le azioni criminose. Ciò porta a ritenere un’unica serie omicidiaria, quella che in realtà è compiuta da due assassini che agiscono separatamente.

Il “numero oscuro” trova alimento anche nella cessazione improvvisa della serie omicidiaria.
A tal proposito, è possibile formulare diverse ipotesi:

·         Morte del serial killer, spesso per suicidio

·         Arresto e pena detentiva del serial killer per altro reato

·         Scelta, da parte del serial killer, di un luogo diverso dove cacciare le sue prede

·         Interruzione della compulsione ad uccidere per un cambiamento di vita, che porta il serial killer a trovare gratificazione nel ricordo degli omicidi compiuti

Convergono nel numero oscuro, gli omicidi seriali commessi negli ospedali, nelle case di cura e nei ricoveri per anziani.

In questo caso, non è facile provare con certezza la colpevolezza di un individuo, dal momento che non sempre esistono prove concrete, testimoni oculari e sufficienti indizi.

Esiste una banca dati europea: European Serial Killer Data Bank, finalizzata all’ individuazione delle caratteristiche di ogni nazione e alla comparazione con il campione americano.
Da questi dati emerge che l’omicidio seriale è più frequente nei paesi dell’Europa settentrionale e le nazioni che occupano i primi posti sono le più industrializzate. Nelle zone più industrializzate, infatti, il grado di alienazione è più elevato e le relazioni affettive e sociali sono frammentate. Conseguenza di siffatta condizione sono la solitudine e la sfrenata competitività, cifra comune dei paesi sviluppati.


       Meccanismi psicologici degli omicidi seriali


Gli studiosi concordano nell’affermare che esperienze traumatiche durante l’infanzia e l’adolescenza, siano determinanti nella scelta di un comportamento deviante. C’è da dire, però, che non tutti gli individui che hanno esperito situazioni difficili, di abuso, di emarginazione, di abbandono, diventino serial killer.
Per comprendere meglio le radici del fenomeno, ci viene in aiuto una prospettiva teorica basata sul modello sistemico-relazionale.
Secondo tale teoria, i serial killer sarebbero la risultante di una coazione tra  famiglia di provenienza, sistema genitoriale, dinamiche relazionali e personalità e caratteristiche fisiologiche individuali.
 Il comportamento omicidiario sarebbe, pertanto, il prodotto di un intreccio tra il fattore individuale, socio-ambientale e relazionale.

Da diversi studi emergono delle costanti presenti in molti serial killer:

·         Figlio illegittimo

·         Figlio di un genitore abusivo

·         Orfano di entrambi i genitori

·         Vittima di violenze fisiche, psicologiche e/o sessuali perpetrate da uno o da entrambi i genitori


Nell’infanzia è fondamentale la costituzione di un buon “legame di attaccamento” fra il bambino e il genitore e con il procedere della formazione del legame, il bambino si identifica e cerca il contatto con il genitore o con chi ne fa le veci.
La mancata costruzione del “legame di attaccamento”, potrebbe provocare nel futuro adulto incapacità di empatia, di provare sentimenti di affetto o rimorso nei confronti di un altro essere umano.

La maggior parte dei serial killers proviene da una” famiglia multiproblematica” che, secondo la definizione di Mazer, è “ogni gruppo familiare composto da due o più persone, in cui più della metà dei membri ha sperimentato problemi di pertinenza con un servizio sociale e/o sociosanitario o legale”.

Tutti i serial killer avvertono come negativa la loro esistenza e vivono un forte senso di inferiorità fisica, psichica, sociale, sessuale. La solitudine, l’emarginazione e l’insicurezza li portano a colmare questo vuoto interiore, con una sfrenata necessità di protagonismo e con un comportamento narcisistico.
 Si sdoppiano fra una vita una vita pubblica convenzionale ed una segreta, perversa e turbata da fantasie sadiche. Quando, poi, passano dall’ immaginazione all’ atto, cioè dopo aver provato il gusto del dare la morte, non riescono più a smettere.


   Segni premonitori del comportamento del serial killer


M. Newton compone un elenco di sintomi che, durante l’infanzia o l’adolescenza, possono indicare un futuro comportamento omicidiario:
·         Isolamento sociale

·         Difficoltà di apprendimento ed insuccesso scolastico

·         Sintomi di danni neurologici (forti mal di testa, crisi epilettiche, scarsa coordinazione muscolare, incontinenza)

·         Bisogno immotivato e cronico di mentire

·         Ipocondria

·         Mancanza di autocontrollo

·         Attività sessuale precoce e violenta

·         Ossessione per il fuoco, il sangue e la morte

·         Crudeltà verso gli animali e/o le persone

·         Comportamento autodistruttivo (automutilazione, disturbi alimentari, abuso di alcol e altre sostanze)

·         Cleptomania

·         Precoce uso di stupefacenti



                                                                                                                                                                  Vittimologia dell’omicidio seriale



Omicidio seriale di donne

Il serial killer solitamente sceglie ragazze molto giovani o donne anziane, per avere un vantaggio fisico che gli permetta di sopraffare la vittima. Attraverso la cattura e l’uccisione, l’assassino, che si ritiene sessualmente inadeguato, si riappropria della sua virilità e della stima di se stesso. La soddisfazione raggiunta non è, però, duratura, tanto che l’assassino deve reiterare l’azione omicidiaria.

Fra le donne, ha una maggiore “predisposizione vittimogena” la prostituta.
La rendono vittima ideale i seguenti elementi: è abituata ad essere avvicinata da uomini sconosciuti; è disposta a seguire il cliente in un posto isolato; quando una prostituta sparisce o ne viene ritrovato il cadavere, spesso si pensa che sia stata uccisa dal protettore o da qualcuno legato al giro della prostituzione; rappresenta simbolicamente il peccato e ciò può far scattare violenti meccanismi psicologici.

La studentessa è un tipologia di vittima specifica degli Stati Uniti.
La sua vulnerabilità è data dal fatto che gli studenti, nei campus universitari, vivono da soli o con altri compagni e senza la sorveglianza dei genitori.



Infanticidio seriale

I bambini rappresentano vittime ideali perché facilmente manipolabili da un adulto.
Il serial killer, a volte, si presenta vestito da poliziotto o da prete, figure che per il bambino sono rassicuranti. L’omicidio è spesso preceduto da molestie o violenza sessuale.

Omicidio seriale di massa

L’assassino, uccidendo più persone nella stessa azione omicidiaria, alimenta la sua smania di onnipotenza.

Omicidio seriale di coppia

Scopo dell’assassino è cancellare una relazione che non riesce a sopportare, cioè quella fra un uomo e una donna.
Si tratta, in questo caso, di individui che, a causa di gravissimi problemi relazionali, non riescono ad instaurare un rapporto con una donna. La maggiore aggressività si manifesta nei confronti della figura femminile.


Omicidio a vittimologia mista

Alcuni assassini seriali hanno solo bisogno di uccidere, al di là del sesso, dell’età delle vittime e del simbolismo psicologico che può rappresentare.



    Vittimologia allargata: il genitore del seria killer e i parenti delle vittime


Un genitore che scopre il proprio figlio essere un serial killer, attraversa diverse e ben definite fasi emotive:
·         Incredulità e negazione dell’evento

·         “Meccanismo dello spostamento”: accettazione dell’evento e spostamento della responsabilità su terzi (qualcuno avrebbe esercitato una negativa influenza su di lui)

·         Accettazione dell’evento e spostamento della responsabilità su se stesso

·         Percezione del fallimento del proprio ruolo di genitore


I parenti delle vittime manifestano frequentemente i sintomi del PTSD (Disturbo post-traumatico da stress): ansia, depressione, sintomi dissociativi, riduzione della recettività emozionale.