sabato 31 gennaio 2015

HO BUTTATO IL CIBO E MI SENTO POTENTE

                             

                                           I disturbi alimentari e i siti Pro-Ana





I disturbi del comportamento alimentare sono in crescita, soprattutto nel mondo occidentale, dove l'ideale di magrezza e perfezione fisica è sempre più diffuso.
Mietono vittime, prevalentemente, fra le donne più giovani, colpendo in ogni strato sociale.

Il disturbo è spesso legato a problemi emotivi, come carenza di autostima, difficoltà di accettazione del sé, socializzazione problematica, e ad una distorta percezione del proprio corpo, avvertito sempre come sgradevole.

Tenere sotto controllo e perdere peso, equivale alla soluzione di ogni problema.  

"Sono un po' di giorni che non scrivo perché mi si è rotta la bilancia e quindi non ho la minima idea di quanto peso e sto letteralmente impazzendo! Bruttissimo no avere il controllo di quello che mi succede" scrive una ragazza sul suo blog.
Si diffondono a macchia d'olio siti Pro-Ana, blog e forum in cui le ragazze parlano del loro rapporto con il cibo e con il corpo, descrivendolo non come un problema, ma come una scelta, una filosofia di vita.

I gruppi di discussione on-line si configurano come comunità virtuali esclusive,m dove è ammesso solo chi condivide i principi della filosofia Pro-Ana: esaltazione del dimagrimento assoluto e del distacco dal cibo. Qualsiasi cedimento è condannato come sintomo di debolezza e come tradimento verso la causa anoressica.

Il movimento Pro-Ana nasce negli Stati Uniti tra il 1998 e il 1999 e approda in Europa negli anni immediatamente successivi, toccando prima l'Inghilterra, la Francia, la Spagna, per giungere in Italia nel 2003.
Ana è una dea venerata, simbolo di ferrea volontà e bellezza irraggiungibile.

Ana è potente ed impone il suo decalogo:
  • Se non sei magra, non sei attraente
  • Essere magri è più importante che essere sani
  • Compra dei vestiti, tagliati i capelli, prendi lassativi, muori di fame, fai di tutto per sembrare più magra
  • Non puoi mangiare senza sentirti colpevole
  • Non puoi mangiare cibo ingrassante senza punirti dopo
  • Devi contare le calorie e ridurne l'assunzione di conseguenza
  • Quello che dice la bilancia è la cosa più importante
  • Perdere peso è bene, guadagnare peso è male
  • Non sarai mai troppo magra
  • Essere magri e non mangiare sono simbolo di vera forza di volontà e autocontrollo
Ana invia messaggi farneticanti alle sue adepte:

"Sono con te quando ti svegli al mattino e ti seguo durante il giorno. A scuola, quando la tua mente vaga, riconta le calorie della giornata. Sei mia e solo mia. Senza di me non sei nulla. Non combattermi, sono il tuo bene più grande".

Ana, la dea sacerdotessa e filosofa, istigatrice ad un suicidio di massa, detta ancora le sue volontà:

"Ti dirò di non mangiare e mi darai retta. Altre volte mi disobbedirai e ti farò sentire veramente in colpa. Vai al bagno, dove aprirai il rubinetto e ti costringerai a vomitare. Presto imparerai che sono nel controllo, dicendoti di prendere pillole dimagranti, dicendoti quanto sei grassa, dicendoti quello che realmente la gente bisbiglia oltre la stanza. Mi amerai a tal punto che non racconterai niente a nessuno di me. Se lo fai...".


La pericolosità di questi siti web consiste nell'incentivare patologie bulimico-anoressiche e contribuire a rendere abituale l'espressione del disagio attraverso il sintomo alimentare.

Una ragazza scrive:"Sento di essere sempre più sola insieme alla mia malattia che mi sta consumando corpo e cervello, la mia mente ne è completamente invasa. Un'unica ossessione: il digiuno.

 Vengono diffuse diete dall'apporto calorico al di sotto della soglia di sopravvivenza:

  • Una mela al giorno per 10 giorni
  • Pranzo: 15 g. di mozzarella. Cena: 10 g. di prosciutto cotto
  • Pranzo: 2 l. di brodo, 16 g. di pane, 1 mela. Cena: 15 g. di insalata, 10 g. di pane, i mela
  • Colazione: 1 pompelmo. Pranzo: 2 salatini, 4 bastoncini di carote, 4 gambi di sedano, 3 cucchiaini di senape. Cena: mezza tazza di yogurt senza grassi e senza zuccheri ( totale 202 calorie).

Chi digiuna consiglia anche come fare i conti con i crampi della fame:

"Dai pugni allo stomaco, così la fame ti passa" ; "Accovacciati come una palla finché lo stomaco non smette di brontolare".

Si legge ancora: "La cosa peggiore non è morirne, è sopravvivere, andare a letto e sperare di non svegliarsi più il giorno dopo, perché sai che dovrai affrontare un altro giorno di lotta con la malattia, una sofferenza infinita, una continua forma di malessere. Quelle che muoiono per me sono le più fortunate".

Il docente e ricercatore Antonio Casilli, che ha guidato un team di studiosi in Francia e Gran Bretagna, spiega che i siti più che glorificare l'anoressia, sono dei self-help, luoghi che compensano i disservizi della sanità.
Lo studioso aggiunge che la censura, l'oscuramento dei siti sarebbe inefficace, anzi dannoso, dato che il tentativo della community di nascondersi allo sguardo dei censori, la sottrarrebbe anche al controllo medico che, attraverso i contenuti, potrebbe meglio comprendere le dinamiche della patologia.
Casilli, infine, sottolinea il valore positivo della comunità virtuale: se la malattia comporta la perdita della volontà di condividere il momento del pasto, il confronto, all'interno di quei siti, rappresenta l'unica opportunità di recuperare una sorta di convivialità e condivisione della propria esperienza del cibo.

Immenso rispetto per le opinioni di un illustre scienziato, ma l'esperienza quotidiana, in famiglia e a scuola, l'osservazione diretta e attenta di genitori e docenti, dolorosamente insegna che siti, blog, forum funzionano da vero tam-tam, offrendo facilmente un falso senso di appartenenza e promuovendo la diffusione della malattia.

Riteniamo necessario un intervento tempestivo, se il proprio figlio ha effettuato una tale ricerca sul web: bisogna rivolgersi subito a strutture accreditate, dove è possibile trovare medici in grado di riconoscere i sintomi della malattia e iniziare un lungo, faticoso, e non privo di ricadute, percorso verso la guarigione.
La terapia cognitivo-comportamentale, anche associata ad una farmacologica, risulta, a quanto pare, un trattamento di provata efficacia.




L'anoressia e la bulimia, sono erroneamente percepite come patologie prettamente femminili, in realtà riguardano anche gli uomini. La Visnoressia, l'anoressia del genere maschile, non si manifesta, sempre, allo stesso modo dell'anoressia femminile.
La ragazza anoressica, pur sottopeso, si vede talmente grassa da decidere di non mangiare fino a mettere in pericolo la propria vita, l'uomo, invece, ricorre, in taluni casi, ad un eccessivo esercizio fisico e all'uso di prodotti che incrementano la massa muscolare. Agendo in questo modo, il ragazzo si sentirà protetto, riuscendo a mascherare insicurezze e difficoltà psicologiche.


Bisogna rivolgersi immediatamente ad uno specialista, perché quanto prima si interviene, maggiori sono le probabilità di contrastare queste letali malattie psichiatriche.

                        


  






martedì 27 gennaio 2015

GIORNATA DELLA MEMORIA 2015

                                                                     

        Le vittime della banalità del male                                                       
                                                       
                                                                                                                              



In giornate come oggi, si avverte più che mai l'urgenza di riaffermare i valori di dignità, uguaglianza e libertà di ogni essere umano,conservando e coltivando la memoria dei momenti tragici della nostra storia.

"Convivere con Auschwitz" si intitola l'incontro che ha avuto luogo il 21 gennaio 2015, pochi giorni prima della "Giornata della Memoria", presso l'Auditorium del Museo Revoltella di Trieste.
L'evento, organizzato dall'Università di Trieste, ha voluto dedicare, con interventi di studiosi, filmati e testimonianze di sopravvissuti, un'intera giornata al ricordo e alla riflessione su una delle pagine più buie della vita dell'umanità.
Non è certo casuale la scelta di Trieste come sede dell'incontro.
Proprio in  questa città, nel 1938, Benito Mussolini, accolto da una folla plaudente, pronunciò il suo discorso sulle leggi razziali.

"Eichmann ist Kein Mefisto! " Eichmann non è un demonio, esclama Barbara Sukowa, la Hannah Arendt dell'intenso film di Margarethe Von Trotta, tratto da "La banalità del male" di Hannah Arendt, filosofa tedesca ebrea,allieva di Martin Heidegger e Karl Jaspers.

" La banalità del male", titolo originale " A report of the Banality of Evil", del 1963, riprende i resoconti che l'autrice aveva pubblicato, come corrispondente per il settimanale New Yorker, del processo di Adolf Eichmann, gerarca nazista catturato nel 1960, processato a Gerusalemme nel 1961 e condannato a morte per impiccagione il 15 dicembre 1961.
Il tribunale lo aveva riconosciuto responsabile di crimini contro gli Ebrei, per aver reso possibile lo sterminio, anche se non messo in atto personalmente.
"I Lager servono, oltre che a sterminare e a degradare gli individui, a compiere l'orrendo esperimento di eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la spontaneità stessa come espressione del comportamento umano e di trasformare l'uomo in un oggetto, in qualcosa che neppure gli animali sono".
La Arendt non si riferisce solo alle vittime dello sterminio, ma anche agli esecutori.
Dice ancora la filosofa: "Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme".
Ecco perché Eichmann non è Mefistofele, ma un essere "normale", più temibile di un mostro inumano.

Eichmann sarebbe potuto essere chiunque: sarebbe bastato essere senza idee.

Nel pensiero della Arendt, per un essere umano è male essere "inconsapevolmente volontario", essere il braccio "intenzionalmente inconsapevole" di qualcun altro.
Ciò che la filosofa tedesca scorgeva in Eichmann, infatti, non era la stupidità, ma qualcosa di più negativo: l'incapacità di pensare.
"Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza di altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano".

L'olocausto è stato la creatura mostruosa, partorita dall'obbedienza cieca e inconsapevole di migliaia di persone che, pur sapendo, si sono rifiutate di porsi il problema della loro responsabilità.
Piccoli burocrati che, svolgendo il proprio lavoro, non hanno pensato che questo coincideva con un crimine.

Il male del nostro presente deriva anche dalla mentalità del "così fan tutti".

Sulla scena pubblica si agitano molti "cattivi maestri" che indicano vie facili, ma pericolose, alla banalità del male: la perdita diffusa del senso del dovere; il rimando ad altrui responsabilità per minimizzare le proprie; la disaffezione al bene comune.

Stiamo assistendo, dunque, alla diffusione di un gigantesco meccanismo di deresponsabilizzazione dell'individuo.

A questa tendenza che riduce il male a banalità, però, bisogna reagire, ritrovando il senso della serietà della vita, del suo spessore morale e della dignità dell'esistenza personale.

    Piera Denaro






martedì 20 gennaio 2015

DONNE IN CORSA CONTRO LA VIOLENZA


                                            

                                          
                                                     
In tutta Italia, giorno 24 Gennaio 2015, le “Women in run”, vestite di rosso, correranno e grideranno “No alla violenza sulle donne”.

L’evento organizzato dalle “Runners Termoli”, si configura come il primo grande running flash mob che sia stato mai organizzato in Italia.

A tutt’oggi sono 34 le città italiane che partecipano all’iniziativa, ma nei prossimi giorni è prevista l’adesione di altre città.

Il gruppo “Women in run” nasce sul web, dopo l’aggressione di una runner, violentata dal branco, in pieno centro, lungo il Naviglio Grande a Milano e vuole essere una risposta ed una denuncia da parte delle donne che non hanno paura.


Altra forte denuncia proviene dall’ edizione inglese della rivista femminile Cosmopolitan, che ha creato, per il numero di Febbraio, una copertina di grande impatto: una donna soffoca intrappolata in una busta di plastica. L’immagine si riferisce alla terribile vicenda della 17enne anglo-pakistana Shafilea Ahmed, uccisa dai suoi genitori, con una busta di plastica, per aver rifiutato un matrimonio combinato.


“La violenza contro le donne e le ragazze continua con la stessa intensità in ogni continente, Paese e cultura.Questa impone un devastante dazio sulla vita delle donne, sulle loro famiglie e sull’intera società. La maggior parte delle società proibiscono questo genere di violenza, in realtà questa è ancora troppo spesso coperta o tacitamente condonata”, così si esprimeva Banki-Moon, Segretario Generale delle Nazioni Unite, l’8 marzo 2007.

In Italia 1 milione e 400mila ragazzine ha subito stupro prima dei 16 anni: oltre il 90% dei casi non è stato denunciato.

Questo silenzio ricorda la Sicilia di Franca Viola, nel 1965. La ragazza fu sequestrata e violentata per più giorni dal suo spasimante, sempre respinto, che contava sulla clausola del matrimonio riparatore. La giovane si oppose a tale barbara consuetudine, non accettò il matrimonio e denunciò il suo aggressore.    
                                                
                                                                                   
La violenza sulle donne è un problema universale, dilagante e dalle proporzioni impressionanti, ed è gravissimo e colpevole sottovalutare la credibilità delle vittime.

Oggi, come nel passato.                                                                     



Un ricordo merita Tina Lagostena Bassi, che prese parte al primo  processo per stupro mandato in onda dalla Rai, il 26 aprile 1979, come documentario dal titolo Processo per stupro.



La vittima del processo filmato era una giovane di 18 anni, che aveva denunciato per violenza carnale un gruppo di quattro uomini.
Come difensore di parte civile Tina Lagostena Bassi, che in un’intervista del 2007 dichiara: “Ricordo che la gente era sconvolta, perché nessuno immaginava realmente quello che avveniva in un’aula giudiziaria, dove la giustizia era altrettanto violenta degli stupratori nei confronti delle donne. Era una violenza…uno proprio la sentiva, materialmente”.

Gli avvocati difensori durante il processo inquisirono sui dettagli della violenza e sulla vita privata della donna offesa, al fine di addossarle la responsabilità della violenza.

L’atteggiamento mentale prevalente in aula: una donna di “buoni costumi” non poteva essere violentata e se c’era stata violenza, questa doveva evidentemente essere stata provocata da un atteggiamento sconveniente da parte della donna.

Gli avvocati degli aguzzini: “Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Avete cominciato a scimmiottare l’uomo. Voi portavate la veste, perché avete voluto mettere i pantaloni? Avete cominciato con il dire < Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito, il mio fidanzato, mio cugino, mio fratello, mio nonno, mio bisnonno vanno in giro? >Vi siete messe voi in questa situazione. Ognuno raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente”.

Il documentario, visibile su Youtube è sconvolgente: gli imputati e i loro avvocati mostrano un’insolenza intollerabile.

Il processo si concluse con la condanna ad 1 anno per gli stupratori, che vennero poi rilasciati con la condizionale.

Almeno sulla carta, lo stupro era stato punito ed era la prima volta che si dava ragione ad una donna.

Ci si rammarica, però, che Tina Lagostena Bassi, scomparsa il 4 marzo 2008, sia ricordata da molti, soprattutto come giudice di un programma televisivo, dove vicini di casa litigano per beghe condominiali, piuttosto che per essersi battuta sempre come una leonessa in difesa delle donne.


   Piera Denaro



                                                                                                                  

sabato 17 gennaio 2015

NON CE LA FACCIO PIÙ: LA SINDROME DA BURNOUT NEGLI INSEGNANTI

Un problema ad esito patologico spesso sottovalutato.

La sindrome da Burnout colpisce soprattutto medici,
figure sanitarie, addetti ai servizi di emergenza, insegnanti.

Burnout significa letteralmente "bruciarsi completamente", potremmo anche tradurlo con "non ce la faccio più".

Il burnout, secondo la definizione della Dottoressa Francesca Birello, "è un esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni di aiuto, qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere".

Il burnout colpisce medici, figure sanitarie, addetti ai servizi di emergenza, insegnanti.
Di quest'ultima categoria vorremmo parlare.

Alcune ricerche dimostrano che il comparto scuola è quello più a rischio. Non si può non citare la pubblicazione: "Burnout e patologia psichiatrica negli insegnanti" a cura di Lodolo D’Oria Vittorio, Pecori Giraldi Francesca, Vitello Antonio, Vanoli Carola, Zeppegno Patrizia, Frigoli Paolo

"Nell’Orto degli Ulivi un Maestro in preda a tristezza e angoscia.
I suoi discepoli, diversi per provenienza e cultura, disorientati e stanchi.
La comunità ostile.
Le istituzioni contro.
Un lungo avvenire davanti."


Tale sindrome è caratterizzata da affaticamento fisico, atteggiamento distaccato e apatico nei rapporti interpersonali, sentimento di frustrazione per la mancata realizzazione delle proprie aspettative.

Fabio Folgheraiter
A questi sintomi, Fabio Folgheraiter, docente di Metodologia del Servizio Sociale presso l'Università Cattolica di Milano, aggiunge la perdita di autocontrollo, cioè smarrimento del senso critico che consente di attribuire all'esperienza lavorativa una giusta dimensione.

La professione, quindi, viene ad assumere un'importanza smisurata nell'ambito della vita di relazione.

I risultati di un'indagine, svolta dai Collegi Medici della ASL di Milano su diverse categorie professionali, dimostrano che la categoria degli insegnanti è soggetta a una frequenza di malattie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operatori.

Tra le cause di stress lavorativo nella scuola italiana, secondo quanto indicato nello studio, troviamo: 
  • la trasformazione della società verso uno stile di vita sempre più multietnico e multiculturale.
  • l'avvento delle nuove tecnologie di comunicazione elettronica.
  • il passaggio critico dall'individualismo al lavoro d'equipe.
  • il rapporto con studenti e genitori, classi numerose, conflittualità fra colleghi.
  • il continuo evolversi della percezione di nuovi valori sociali.
  • il susseguirsi continuo di riforme.
  • la maggiore partecipazione degli studenti alle decisioni e conseguente livellamento dei ruoli con i docenti.
  • l'inadeguato ruolo istituzionale attribuito alla professione (retribuzione insoddisfacente, risorse carenti, precarietà del posto di lavoro, mobilità, scarsa considerazione da parte dell'opinione pubblica). Opinione diffusa: vita comoda, brevi orari di lavoro, ferie lunghe.

Nello studio sono pure riportate descrizioni e analisi delle reazioni di adattamento, coping strategies, che i singoli insegnanti adottano per far fronte al burnout, nel tentativo di reagire ad una situazione che potrebbe degenerare in malattia psicofisica.

Lo studioso inglese P. Cooper diversifica le coping strategies in:
  • azioni dirette ( direct), miranti ad affrontare positivamente la situazione.
  • diversive (diversionary), tese a schivare l'evento, assumendo un atteggiamento apatico e distaccato.
  • di fuga (withdrawal),  abbandono dell'attività, per sottrarsi alla situazione stressogena.
  • palliative (palliative), ricorso a sostanze come caffè, fumo, alcool, farmaci.
Non si può negare che l'immagine sociale e il prestigio degli insegnanti siano stati erosi, anche da vari e scellerati governi, il cui dovere sarebbe stato, invece, sostenere la scuola e ridare ai docenti la necessaria autorevolezza.

Scarica la guida ISPESL
Ci piace utilizzare un'espressione coniata dall'ex ministro Fioroni: genitori sindacalisti dei figli.

In queste parole c'è tutto: ideologia del diritto a qualsiasi cosa, eclissi del dovere, smania di ottenere risultati con facilità e senza fatica.

Quella italiana è una scuola in cui l'invadenza e l'arroganza dei genitori sono un malcostume diffuso e intollerabile, è una scuola in cui gli alunni sono sempre più viziati e maleducati, anzi "educati male"(non vorremmo urtare la suscettibilità di qualche lettore), dagli atteggiamenti gravemente diseducativi assunti da genitori, a volte improvvisati e troppo protettivi.

Il passo è breve: otteniamo ragazzi deresponsabilizzati e ignoranti.

Ad ognuno il suo ruolo.

Il genitore spesso entra a gamba tesa in un territorio non suo e pretende di insegnare ai docenti come fare i docenti.

Sono proprio questi i genitori che danneggiano la scuola.

I docenti sono stufi di regalare sufficienze a chi avanza disturbi psicologici, lamenti e piagnistei, causati da un'incauta valutazione dell'insegnante, a detta dei genitori.
Certificati medici compiacenti e minacce di vie legali: ecco il nuovo che avanza,"le magnifiche sorti e progressive".

Non ce la faccio più.

Piera Denaro

Per approfondire: 

STRESS E BURNOUT 
Come riconoscere i sintomi e prevenire i rischi 

domenica 11 gennaio 2015

MEDEA FRA NOI: MADRI CHE UCCIDONO IL PROPRIO FIGLIO

Perché una madre può giungere ad uccidere i propri figli?
Cronaca quotidiana, ma anche dramma senza tempo e senza confini, quello delle madri assassine.

Medea tra noi. Le madri che uccidono il proprio figlioGian Carlo Nivoli nel suo "Medea tra noi. Le madri che uccidono il proprio figlio", elenca varie motivazioni che possono rendere le madri responsabili di questo crimine.

- L'atto impulsivo delle madri solite maltrattare i figli.
- L'agire omissivo delle madri passive e negligenti nel ruolo materno. 
- Le madri che uccidono i figli non desiderati. 
- Le madri che uccidono i figli trasformati in capri espiatori di tutte le loro frustrazioni. 
- Le madri che negano la gravidanza e fecalizzano il neonato. In questo caso, il neonato viene ucciso o lasciato morire nell'immediatezza del parto. 
- Le madri che riproducono sul loro figlio le violenze agite dalla loro madre. 
- Le madri che trasferiscono il desiderio di uccidere la propria "madre cattiva" al "figlio cattivo". 
- Le madri che desiderano uccidersi ed uccidono il figlio. 
- Le madri che uccidono il figlio perché pensano di salvarlo. 
- Le madri che uccidono il figlio per non farlo soffrire. 



IL COMPLESSO DI MEDEA E LA SINDROME DI MÜNCHAUSEN PER PROCURA (SMP) 


medea
Medea uccide suo figlio. 
Anfora. IV Sec. B.C.: Louvre - Parigi
Il Complesso di Medea deriva il suo nome dal mito greco e, in criminologia, indica una donna che uccide i propri figli per vendicarsi dei torti, reali o presunti, che subisce dal compagno. 
Ad Ostia, nel 1988, Apollonia Angiulli, annega nella vasca da bagno due figli, di 1 e 5 anni. .
La polizia, dando credito al racconto della donna, si convince che si sia trattato di un tragico incidente.

Nel 1991, muore affogato nella vasca un terzo figlio. La donna tenta il suicidio ma viene salvata e arrestata. Indagini più approfondite rivelano che l' Angiulli viveva un rapporto di forte tensione con il marito e, uccidendo i figli, intendeva attirare l'attenzione dell'uomo.

La Sindrome di Münchhausen prende il nome dal barone di Munchausen, un personaggio letterario che intratteneva i suoi ospiti, raccontando avventure impossibili. Tale sindrome indica il comportamento di chi presenta un disturbo, provocato artificialmente, per il quale chiede insistentemente l'intervento medico

La Sindrome di Munchausen per Procura riguarda chiunque induca dei sintomi su una persona, in modo che questa venga considerata malata.

Apparentemente la madre si prende cura del figlio, mentre nella realtà vuole procurare un danno alla salute del figlio o ucciderlo, allo scopo di stare al centro dell'attenzione, soprattutto del personale sanitario.

La sindrome si può manifestare, convincendo il bambino di essere malato o somministrando sostanze nocive (sale, droghe, iniezioni di feci, urina, saliva o veleni di vario tipo.

Una donna inglese affetta da SMP, curata mediante psicoterapia dal dottore A.R.Nicol, diceva:
"Mi piaceva sentire la compassione degli altri, mia figlia doveva stare male perché io potessi sentirmi importante. In ospedale ero qualcuno" e riferendosi ai medici:"Mi piaceva essere presa in considerazione da loro".
Nel 1990, Jennifer Bush, una bambina di nove anni, fu sottoposta a 200 ricoveri e 40 interventi chirurgici, perché avvelenata dalla madre mediante iniezioni fecali.

Lo psichiatra M. Lesnik-Oberstein della Free University di Amsterdam afferma: "l'infanzia di una madre affetta da SMP è caratterizzata da gravi privazioni affettive...il bambino viene ricoverato affinché la madre possa soddisfare indirettamente i suoi bisogni affettivi, peraltro appagati maggiormente con il coinvolgimento nel trattamento pediatrico".

Complesso è l'inserimento di tali comportamenti entro canoni psicologici o profili sociali ben definiti, perché chi soffre della SMP può appartenere a qualsiasi fascia sociale, né esiste un profilo psicologico specifico. Sono stati, però, individuati tratti ricorrenti: coinvolgimento in attività lavorative di tipo ospedaliero o di assistenza (infermiere, baby sitter); matrimoni in cui il marito è passivo e non supporta la moglie.

Si nota, negli ultimi tempi, un incremento di infanticidi commessi dalle madri. Le famiglie vivono momenti di disagio profondo e di depressioni, spesso, occulte.
Necessitano tempestivi interventi di aiuto e sostegno.
Realtà drammatiche, vicine a noi, passano sotto silenzio e si consumano nel disinteresse e nell'indifferenza.

Non possiamo fingere di non sapere e di non vedere, perché una debole coscienza rende colpevoli anche noi, allo stesso modo.

Piera Denaro


PER APPROFONDIRE 

VERONA PANARELLO: UNA MEDEA TRA NOI?di Piera Denaro
pubblicato su PalermoMania, il 15/01/2015

di Carlo A. Corsini

di Laura Zanellato

martedì 6 gennaio 2015

LASCIATECI MORIRE IN PACE







"Al malato terminale che, negli ultimi giorni di vita con dolori violentissimi, chiede l'iniezione per
morire serenamente, gli viene negata" e "se il medico la fa, può essere accusato di omicidio. Molti però la fanno, è un movimento sott'acqua che si trova a lavorare in maniera clandestina"  dice Umberto Veronesi, illustre oncologo.
Le vicende che hanno coinvolto Elena Moroni, Eluana Englaro, Giovanni NuvoliPiergiorgio Welby, o Terry Schiavo negli Stati Uniti, hanno scatenato polemiche e dibattiti, più o meno coloriti, ma nessuna modifica è stata apportata all'attuale situazione legislativa.

In Italia, l'eutanasia è un tabù inviolabile.

"La buona morte", invece, dovrebbe essere al centro di un serio dibattito sulla vita, la morte, il dolore e la dignità umana.

 La casistica è ben fornita: eutanasia diretta, se la morte viene provocata con farmaci e sostanze che portano al decesso; eutanasia indiretta, nel caso di rifiuto dei trattamenti medici per la continuazione della vita; eutanasia volontaria, dietro richiesta esplicita del malato tramite testamento biologico; per i minorenni e le persone incapaci di intendere e volere si parla di eutanasia non volontaria; il suicidio assistito prevede la collaborazione attiva di medici e  personale qualificato per coloro che abbiano deciso di morire, anticipando il decorso naturale della malattia.

Tutte le forme hanno un denominatore comune: la legge italiana le vieta, equiparandole all'omicidio volontario ( art.575 c.p.) o all'omicidio consenziente (art. 579 c.p.) o all'istigazione al suicidio
(  art.580 c. p.).


Nessun medico ammetterà mai pratiche, come sospensione del trattamento, sedazioni terminali o ordini di non rianimazione. 

Nel 2010, lo studio National survey of medical choices in caring for terminally ill patients in Italy afferma come in Italia un medico su due, che lavori con pazienti terminali, abbia ricevuto al meno una richiesta di interruzione della terapia, e al 23% sia stata chiesta la somministrazione di farmaci letali.

Secondo l'Istituto Mario Negri di Milano, circa 90mila  malati terminali muoiono ogni anno e il 65%  di questi pazienti, aggiunge l'Associazione Luca Coscioni, si fa assistere dai medici per smettere di soffrire.
Gli Inglesi la chiamano "euthanasia by the back door", della porta sul retro.

In Italia ha un'etichetta infamante: eutanasia clandestina.


Un medico rianimatore ci confida: "Tanti pazienti mi chiedono di farla finita. Li tranquillizzo, faccio finta di non vedere, ma li aiuto a esaudire la loro volontà.

Il personale sanitario viene colpevolizzato, siamo considerati assassini. Viviamo il dramma di questa scelta in solitudine".


Secondo l'Eurispes ( Rapporto Italia 2013), il 64% degli Italiani è favorevole all'eutanasia, ma nel nostro Paese non si riesce a porre dei paletti legislativi.


Nell'ultimo decennio tante proposte di legge sono cadute nel nulla.


Nel Settembre 2013, una proposta di iniziativa popolare, caldeggiata dall'Associazione Luca Coscioni, è stata sottoscritta da quasi 70mila firme e depositata alla Camera, dove si è poi inevitabilmente arenata.

Punti focali del testo: depenalizzazione del reato di eutanasia volontaria, richiesta dal paziente incurabile con aspettativa di vita inferiore a diciotto mesi e pieno valore legale del testamento biologico.



La mancata volontà dei nostri politici nel dare un assetto legislativo ad una materia così spinosa, porta tanti Italiani a morire in Olanda, in Svezia, in Belgio e, soprattutto , in Svizzera, dove è anche consentito il suicidio assistito in apposite strutture.

Secondo i dati dell'Associazione Exit Italia, nel 2013 almeno cinquanta cittadini italiani sono andati lì a morire.


Non sarebbe ora di lasciare ad ogni individuo la libertà di decidere se continuare a soffrire o morire?


Essere tenuti in vita a forza è peggiore della morte stessa.



"E' una grande menzogna quella che si nasconde dietro certe espressioni che insistono sulla qualità della vita, per indurre a credere che le vite gravemente affetta da malattia non sarebbero degne di essere vissute"; "Il tempo passato accanto al malato è un tempo santo, è lode a Dio", parola di Papa.


Santo Padre, ammettiamo pure che vivere accanto ad un malato sia un percorso di santificazione, ma non stiamo, minimamente, tenendo in considerazione la sofferenza, la volontà, la libertà di un individuo.



Conosciamo bene la posizione cattolica: la vita è donata da Dio e solo lui può disporne, ragion per cui l'eutanasia è un omicidio. E in più, la sofferenza è modo di partecipare alla passione di Gesù.


I conti non tornano.

Nello spirito cattolico non dovrebbero prevalere pietà, misericordia, anziché luoghi comuni e frasi che ad un malato ed alla sua famiglia suonano crudeli, spietate?

"La vita è un dono"; "Bisogna accettare la sofferenza e ubbidire alla Sua volontà; "Bisogna aver fede".



Volontà: come la piccolezza umana può conoscere la volontà di un Dio incommensurabile? Non è forse arroganza, presunzione attribuire a Dio la propria volontà?

Suona bestemmia.



Fede: in chi? In un Dio disinteressato e refrattario al dolore delle sue creature?


Dono: e sia, la vita è un dono. Un dono che, talvolta, infligge atroci sofferenze e priva di ogni speranza? Un dono non ha forse bisogno di altri doni, come la buona salute?


Non si sparano critiche e sentenze sulla pelle degli altri.


Lasciateci morire in pace.


Ridicolo è pensare che la legalizzazione dell'eutanasia, ci obblighi a farne uso.
E' fondamentale, però, che esista uno strumento alla nostra portata: la libertà di morire.

La libertà garantisce anche coloro che non vogliono compiere un'azione permessa dalla legge; la possibilità di decidere di morire, non obbliga nessuno a morire, anzi offre un vantaggio, quello di rinunciarvi.



Vorremmo dire ai militanti pro-vita, anzi pro.tortura: "Voglio morire e , siccome tu credi che sia peccato o atto immorale o chissà che, fatti tuoi, io non dovrei disporre della mia libertà, quella che mi spetta di diritto?

Ma, così, la tua fede, la tua morale diventano un obbligo per me".

Non possiamo dimenticare  Elena, Eluana, Giovanni, Piergiorgio, Terry...
solo fragili e sfortunati essere umani, mortificati, ridotti a simbolo e oggetto di scontri, di battaglie pseudopolitiche e pseudoreligiose.


Piera Denaro