lunedì 27 luglio 2015

IL PASTO CANNIBALICO




IL termine cannibale, utilizzato per definire il comportamento di tutte quelle specie che si cibano di consimili, deriva da "canniba", vocabolo con cui gli indigeni americani delle Piccole Antille designavano certi popoli feroci che, forse, mangiavano carne umana.
Cristoforo Colombo cita questo popolo, chiamandolo "Canibales", puntualizzando di non averlo mai incontrato ma di averne avuto notizia.

Il pensiero di mangiare la carne di altri esseri umani è terribilmente disgustoso, ma non per tutti.

La cultura ci ha spinto, nel corso del tempo, a rifiutare questo comportamento, ma in alcuni casi la "barriera" crolla e l'impulso a nutrirci di un nostro simile può riemergere, come mezzo per dominare l'altro e impossessarsi della sua energia vitale, o addirittura per entrarne in simbiosi.


Tipologie di cannibalismo
  • Cannibalismo guerriero: perpetrato a danno dei vinti in guerra.
  • Cannibalismo religioso: il corpo delle vittime viene consumato in un pasto rituale.
  • Cannibalismo per indigenza: la consumazione è circoscritta alle parti muscolari.
  • Cannibalismo per condanna: smembramento pubblico e consumazione del corpo del reo.
  • Cannibalismo culinario: tipico dei popoli poveri e circoscritto.
  • Cannibalismo per vendetta:riscontrabile in popolazioni in cui è fortemente sentito il culto della vendetta.
  • Cannibalismo psicopatologico: agito da soggetti devianti, spesso in forma seriale. Generalmente la matrice è di natura sessuale. I soggetti, incapaci di rapportarsi con l'individuo sessualmente desiderato, lo uccidono e ne divorano le parti, oggetto di desiderio.


Le radici

In psicoanalisi, mangiare un proprio simile significa possederlo affettivamente. L'atto è riconducibile alla fase sadico-orale, in cui il bambino conosce il mondo attraverso la bocca e ricerca l'appagamento, attaccandosi al seno della madre.
Nel cannibalismo psicopatologico, tale dinamica è da associare ad una incapacità relazionale che sfocia nell'incorporazione dell'altro, come unica via al possesso affettivo.

Il cannibalismo oggi

Il cannibalismo oggi non assume caratteri culturali come in passato,ma viene considerato una devianza mentale caratterizzata da disturbi ossessivo-compulsivi.

"L'istinto pulsionale del consumo cannibalico costituisce nell'individuo il simbolo dell'interiorizzazione dell'oggetto del desiderio sessuale e la particolarità di questo impulso è proprio che la sua forma patologica porta al cannibalismo criminale.
In molti serial killer questo tipo di comportamento patologico e irrefrenabile ha la stessa radice di un qualsiasi comportamento affettivo che, mentre nella persona sana di mente si esaurisce in comune segno di affetto, come un bacio o un piccolo morso, in un individuo con disordini psicologici, diventa un fatto da vivere appieno"( Sirri, Il cannibalismo nella contemporaneità).


Il cannibalismo può essere analizzato anche dal punto di vista biologico. Recenti studi, come quello di Joel Norris, ipotizzano che una disfunzione dell'ipotalamo, destabilizzerebbe il sistema ormonale, alterando la capacità del cervello di misurare le emozioni.




Casi di cannibalismo di ieri e di oggi


Il caso più antico riguarda un Homo Erectus, vissuto circa un milione di anni fa nell'attuale Tanzania.
Gli antropologi Donald Johanson e Desmond Clark hanno individuato sugli zigomi, sulla mascella e su varie ossa, alcuni segni di taglio effettuati con utensili di pietra che indicano come la pelle sia stata rimossa per essere, probabilmente, mangiata.

Altri ritrovamenti archeologici confermano la presenza di comportamenti antropofagi nella preistoria e anche la mitologia e le storie degli antichi riferiscono questa pratica.


Avvicinandoci ai tempi recenti, non si può non riferirsi a Enriqueta Marti, meglio conosciuta come "La strega di Barcellona". Fra il 1902 e il 1912 rapisce e uccide 10 bambini per ricavarne grasso, midollo e sangue, ingredienti base per un intruglio dalle miracolose proprietà terapeutiche. I resti dei bambini, dopo una bollitura, diventavano il pasto della donna.

Restando agli inizi del '900, Albert Fish, soprannominato "L'uomo grigio di Brooklyn, terrorizza gli Stati Uniti dal 1910 al 1934. Arrestato, si vanta di aver ucciso e mangiato oltre 400 persone.

Andrey Romanaic Cikatilo, detto "il macellaio di Rostov", viene accusato dell'omicidio di 53 persone fra il 1978 e il 1990.
Andrey, per mantenere in vita più a lungo le prede e soddisfare le sue voglie, provocava con un coltello ferite superficiali, poi asportava e mangiava gli organi genitali..Preferiva, mentre le vittime erano ancora in vita,strappare a morsi i capezzoli o il pene, il naso o la punta della lingua, prima di recidere gli occhi. Alle donne distruggeva l'utero e l'addome, ai maschi mutilava il pene, lo scroto e l'ano.

Lo slovacco Matej Curko cerca vittime volontarie attraverso Internet. "Se siete stanchi di vivere e volete morire, vi posso aiutare, ma in cambio vi farete mangiare". Si pensa che le vittime siano state almeno 30 e siano state fotografate durante la cottura e la conservazione.

Peter Custen, il "Mostro di Dusseldorf", agli inizi del'900, mangia almeno 9 donne.

Fiedrich Haarmann, il "Mostro di Hannover", tra il 1918 e il 1927 mangia almeno 27 adolescenti.

Nikolaj Dzhumagaliev, il "Mostro di Alma Ata", uccide, probabilmente dal 1970 al 1981, almeno 100 donne , che vengono servite per cena ai suoi amici.

Issei Sagawa, il "Piccolo Mostro di Parigi", nel 1981, uccide e mangia per giorni una studentessa francese.

Joey Cala, nel 2003, uccide la madre e ne mangia il cuore.

 Mao Sugiyama, un ragazzo giapponese,nel 2012, si fa asportare i genitali che cucina con funghi e prezzemolo e serve per pranzo a 5 ospiti paganti.

Katherine Knigh, nel 2000, accoltella il suo ex marito, lo scuoia e appende la pelle ad un gancio del salotto di casa. Lo decapita e cuoce la testa con la carne delle natiche, condendo il tutto con verdure, prima di servire ai figli.

David Playpenz di Colchester, Essex, rimane vittima di un incidente stradale e porta a casa un dito che i medici avevano dovuto amputare."Mi sono sempre chiesto come fosse mangiare la carne umana. Ma è un tabù. La gente non può andare in giro ed essere cannibale: è illegale. Solo allora mi venne in mente che nessuno poteva trascinarmi in tribunale per aver mangiato la mia carne. Ho deciso di cucinarlo e degustarlo".

Si pensa, ma non è accertato, che alcuni casi di cannibalismo siano stati causati dall'assunzione di una droga che provocherebbe uno stimolo incontrollabile di mangiare carne umana. Un caso si sarebbe verificato a Genova, dove un giovane studente avrebbe aggredito la propria compagna, strappandole le labbra a morsi.

Esiste recupero per i cannibali?

Ci chiediamo se sia possibile il recupero di una persona che commette un delitto legato al cannibalismo.
Probabilmente, chi arriva a mangiare un suo simile è un sadico psicopatico, che vivendo in uno stato di cecità emotiva, non conosce empatia.
Inoltre, l'uso dell'incorporazione, come forma di possesso o fusione, indica che questo soggetto, scambiando il piano astratto, simbolico con quello concreto, abbia avuto gravi lacune nello sviluppo. Si ritiene, pertanto, che una terapia psichiatrica non sia in grado di arginare il disturbo.


Il cannibalismo è un tema che desta curiosità, sconcerto, fascino, e ciò viene dimostrato dalle diverse produzioni cinematografiche e dalle numerose pubblicazioni riguardanti l'argomento.

Nessuna meraviglia se il cannibalismo attraversa il nostro quotidiano: "ti mangerei", "è buono come il pane","ti mangio il cuore", "vado lì e me lo mangio vivo".

Ne troviamo traccia nell'amore: i baci, i morsi di passione, l'essere dentro l'altro durante l'amplesso.

Ne è pervasa anche la religione cristiana: è, infatti, una forma di incorporazione simbolica nutrirsi del sangue e della carne di Cristo.


martedì 21 luglio 2015

OBBEDIENZA E CRUDELTA'




           L'esperimento Milgram e il condizionamento sociale


"E' possibile che Eichmann ed i suoi complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?" si chiede lo psicologo statunitense Stanley Milgram dell'Università di Yale, in occasione del processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, descritto da Annah Arendt ne "La banalità del male", più come un grigio burocrate, un piccolo ingranaggio della poderosa macchina di sterminio nazista, che come un essere mostruoso.

Nel 1963 Milgram, conducendo uno degli esperimenti più famosi e controversi della storia della psicologia sociale, vuole comprendere e dimostrare come un'autorità possa condizionare i valori morali ed etici di un soggetto.
In altri termini, lo scienziato vuole capire se e quanto fosse credibile la giustificazione addotta dai torturatori dei lager, che sostenevano di essersi limitati ad eseguire  ordini impartiti da superiori.

L'esperimento

Al fine di studiare quel fenomeno di "obbedienza distruttiva", Milgram reclutò quaranta uomini di età compresa fra i 20 e 50 anni, comunicando loro che avrebbero partecipato ad un esperimento su memoria e apprendimento e, in particolare, se la memoria potesse migliorare tramite la punizione degli errori.

Attraverso un sorteggio truccato, furono assegnati i ruoli di "allievo" e "insegnante": il soggetto ignaro era sempre sorteggiato come insegnante e il complice come allievo.
Gli insegnanti erano chiamati a proporre degli abbinamenti di parole agli allievi e, successivamente, ad interrogarli su quanto appreso.
I soggetti ignari avevano a disposizione una pulsantiera con venti interruttori, azionando i quali potevano infliggere all' allievo, collegato ad elettrodi, una scossa variabile tra 15 V e 450 V ad ogni risposta errata.

Ovviamente la scossa non arrivava mai agli allievi-attori che, comunque, simulavano urla e lamenti man mano che la scossa cresceva d'intensità. Oltre i 330 V gli allievi tacevano al fine di far pensare ad uno svenimento, dovuto all'eccesso di dolore.

Gli insegnanti, durante l'esperimento, erano affiancati da un esperto (l'autorità) che aveva il ruolo di esortarli in modo pressante a proseguire la prova, nonostante la sofferenza degli allievi, con formule precedentemente preparate da Milgram: "L'esperimento richiede che lei continui"; "Non ha scelta, deve andare avanti"; "E' essenziale che continui".

Due terzi degli insegnanti somministrarono scosse elettriche fino a 450 V, incuranti della sofferenza degli allievi.
L'impellenza ad obbedire risultava più forte della pietà verso la vittima e del senso di colpa per il dolore provocato.

L'esperimento dimostra che gli uomini sono portati all'obbedienza in presenza di una figura autoritaria, avvertita come legittima, che invita ad eseguire un compito, anche contrario, ai propri principi morali.

I soggetti dell'esperimento di Milgram, non percependosi responsabili delle loro azioni,, ma esecutori della volontà di un potere esterno, avevano contribuito alla creazione di uno "stato eteronomico"per il quale l'individuo cessa di considerarsi libero di intraprendere condotte autonome, ma mero esecutore di un ordine.

Uno stato eteronomico si basa su tre fattori:
  • La percezione di un'autorità legittima( lo sperimentatore rappresenta l'autorevolezza della scienza).
  • L'adesione al sistema di autorità (l'educazione all'obbedienza fa parte dei processi di socializzazione).
  • Le pressioni sociali (disobbedire allo sperimentatore significa metterne in discussione l'autorità).
Nel 1974 Milgram scriveva: "L'autorità ha avuto la meglio contro gli imperativi morali dei soggetti partecipanti, che imponevano loro di non far male al prossimo. La gente comune può diventare così parte attiva di un processo distruttivo terribile: sono pochissime le persone che hanno le risorse necessarie per resistere all'autorità".

Recentemente, uno studio di Matthew M. Hollander ha posto in discussione le modalità di esecuzione dell'esperimento Milgram, i cui risultati risulterebbero viziati da errori di impostazione, ad esempio la netta divisione dei partecipanti in obbedienti e disobbedienti, non tenendo in considerazione importanti sfumature.

Hollander, dopo aver esaminato le registrazioni audio dell'esperimento e analizzato le risposte dei partecipanti, ha scoperto  modi diversi con cui i soggetti resistevano o tentavano di resistere all'autorità che li incitava a proseguire con le punizioni.

Tra le modalità di resistenza, secondo lo studioso, ci sarebbero state delle strategie di stallo, come parlare con l'allievo o con lo sperimentatore, e il metodo stop try, vale a dire dichiarare di non avere più intenzione di procedere con la prova.

Hollander spiega: "Questo dimostra che anche i partecipanti classificati come obbedienti da Milgram lo hanno fatto solo dopo aver tentato diverse strategie di resistenza. Certo, hanno resistito meno dei soggetti disobbedienti, ma lo studio di queste differenze potrebbe essere cruciale per elaborare strategie più generali per la resistenza all'autorità e la prevenzione di comportamenti illegali o non etici".

Lo studio di Hollander, sconfessando, almeno parzialmente, lo scenario sconfortante di Milgram, fa sperare nella possibilità di diventare meno inclini all'accettazione passiva dell'imposizione della crudeltà, magari subalterni rispettosi dell'autorità, ma disobbedienti quando eticamente necessario.






venerdì 17 luglio 2015

I videogames violenti fanno male?



Non ci sarebbe alcuna relazione tra violenza virtuale e violenza agita, secondo lo studio condotto dallo psicologo Christopher Ferguson, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Comportamentali della Texas A& M International University, e dal suo team.


I ricercatori, dopo aver analizzato e confrontato la frequenza delle scene di violenza nei media tra il 1920 e il 2005 con gli episodi violenti avvenuti nel mondo reale nello stesso periodo, sono arrivati alla conclusione che all'aumentare della violenza nei media, quella reale è addirittura diminuita.

Questi dati, pubblicati sulla rivista specialistica Psychiatric Quarterly, si sovrappongono ai risultati ottenuti da uno studio dell'ESRB ( Entertainment Software Rating Board, gruppo che si occupa di classificare i videogiochi, pubblicati in Nord America, secondo contenuto e fasce d'età) sulla violenza giovanile e la violenza videoludica, confermando l'indiretta proporzionalità fra il proliferare di videogames "mattatoio" e il diminuire degli episodi di violenza reale.

Ferguson aggiunge che la crociata contro i games del tipo "io sopravvivo solo se ti uccido" abbia il fine di spostare l'interesse dell'opinione pubblica da altri problemi sociali reali, generatori di violenza nella vita quotidiana.

Qualche perplessità non ci pare fuori luogo.

Recenti ricerche americane dimostrano come alcune particolari aree cerebrali, quelle deputate al controllo delle emozioni e del comportamento aggressivo, siano fortemente condizionate dalla visione e dall'interazione con videogiochi violenti, determinando un effetto disinibitorio sui centri di controllo emozionali.

Lo psicologo Craig.A. Anderson dell'APA (American Psychological Association) ha pubblicato i risultati di uno studio che, dopo aver preso in considerazione 130000 persone fra USA, Europa e Giappone, collega i comportamenti violenti all'utilizzo di videogames violenti.

La ricerca dell'Ohio State University, pubblicando sulla rivista"Journal of Experimental Social Psychology",fornisce la prova sperimentale che gli effetti negativi del giocare ai videogames violenti, si accumulano nel corso del tempo.
I ricercatori, infatti, hanno scoperto, studiando i comportamenti di 70 studenti volontari, che quelli che avevano giocato con videogames violenti per tre giorni consecutivi, mostravano un aumento dell'aggressività e dell'ostilità.

Brad Bushman, co-autore della ricerca, spiega :"Giocare ai videogame potrebbe essere paragonato al fumare sigarette. Una singola sigaretta non causa cancro ai polmoni, ma fumare per settimane, mesi o anni incrementa notevolmente il rischio. Allo stesso modo, l'esposizione ripetuta ai videogame violenti ha un effetto cumulativo di aggressività."

Un altro studio condotto dalle Università di Amsterdam e di New Jork ha scoperto, utilizzando la Bold fMRI, una particolare risonanza capace di rintracciare le variazioni biochimiche cerebrali, che i video violenti determinano l'aumento dei neuroni preposti ad affrontare le situazioni di attacco o fuga (fight or flight), come accade, per esempio, in guerra.

E' stata anche esaminata la saliva di soggetti mentre guardavano alternativamente immagini violente e immagini che non lo erano.

Solo in chi guardava immagini violente è aumentata la noradrenalina, il neurotrasmettitore fondamentale nella risposta allo stress, attivando un aumento del battito cardiaco e del tono muscolare.

L'America, ideatrice dei "War Games"per insegnare ai militari a superare il blocco psicologico che impedisce di uccidere un altro essere umano, ha concentrato adesso l'attenzione sul tema.

I massacri nella scuola di Newtown, nella Columbine High School, al Politecnico in Virginia, il caso dei due ragazzi di Detroit, che hanno ucciso un loro coetaneo, bruciandone i resti, per imitare "Manhuntz2", il caso di un quattordicenne videodipendente che ha ucciso tre ragazzine o ancora il caso di uno studente ossessionato dal videogioco militare "Counter Strike", hanno forse indotto Obama a destinare fondi per la ricerca degli effetti dei Killer Games sulle "giovani menti".

Anche in Italia diversi organismi di ricerca hanno dedicato attenzione al tema.

L'Istituto di Ortofonologia di Roma (IdO) ha condotto uno studio su 1414 studenti dai 10 ai 19 anni.
L'indagine ha evidenziato che il 75% degli adolescenti italiani gioca ai videogames online e nel 40% dei casi lo fa da solo contro il computer, l'11% contro persone conosciute in rete.

L'IdO, interrogandosi come e in che misura i videogiochi possano influenzare la sfera cognitiva ed emotiva dei minori, mette in evidenza che essi, positivamente, mettendo in connessione individui in tutto il mondo, alimentano il concetto di sfida e di superamento degli ostacoli.

Concreto risulta ,però, il rischio di desensibilizzazione, associabile ad una mancanza di comprensione verso il prossimo e all'incapacità di stringere relazioni sociali positive.

L'argomento presenta tanti punti da approfondire e tanti interrogativi che aspettano risposta, ma ci piace concludere con l'affermazione di un gruppo di scienziati, pediatri,clinici e sostenitori della lotta alla violenza, riuniti recentemente a Vancouver per il meeting annuale Pas-Pediatric Academic Societies:"Violenza chiama violenza, anche quando all'aggressività si assiste attraverso lo schermo di un cinema, della TV o di un videogioco".