venerdì 17 ottobre 2014

DONNE E VELENI

La donna serial killer non è una rarità.

L'universo dell'omicidio seriale non è, infatti, popolato solo da uomini assassini e donne vittime.
Le donne, omicide seriali, riescono a portare avanti per anni la catena di omicidi e, dal punto di vista investigativo, sono più difficili da individuare rispetto agli uomini.

La scelta delle armi, la selezione meticolosa delle vittime e l'organizzazione metodica dell'omicidio, che tende sempre a simulare una morte naturale, sono elementi che, combinati ad una forte resistenza culturale ad ammettere l'esistenza dell'omicidio seriale femminile, sono alla base del "numero oscuro" delle serial killers .

Sono molto rari i casi di strangolamento, percosse, uso di armi bianche; l'arma preferita è il veleno, mezzo che evita il contatto fisico, è discreto,non lascia traccia e, in molti casi, il decesso della vittima appare naturale.

Secondo lo studioso Michael Newton (The Enciclopedia of Serial Killer), il primo caso documentabile di omicidio seriale si riferirebbe ad una avvelenatrice, una certa Locusta o Lucusta, vissuta a Roma durante il primo secolo d.C.
Era una donna di origine gallica, molto popolare in città per la preparazione su commissione di sostanze velenose. A quanto pare, i suoi servizi furono pure richiesti da Agrippina, per uccidere il marito, l'imperatore Claudio, e da suo figlio Nerone.

Anche in età repubblicana, secondo quanto viene tramandato dagli Annali di Roma, sotto il consolato di Valerio Flacco e Marcello, si verificarono numerosi decessi improvvisi, diffusi in tutti gli strati sociali.

Pare che una schiava avesse denunciato alle autorità che autrici dei delitti fossero delle matrone, costituitesi in associazione segreta, al fine di preparare pozioni avvelenate destinate a persone indesiderate.

La storia incrocia la leggenda nel caso della contessa ungherese Erzsebet Bathory,che, nel 1611, venne condannata a morte per aver torturato e sgozzato 650 donne, allo scopo di farsi il bagno nel loro sangue, ritenendolo ricco di proprietà "anti age".

Nel secolo XVII, si moltiplicarono in tutta Europa i casi di veneficio e nel 1676, in Francia, venne giustiziata Marie de Brinvilliers, accusata di aver avvelenato moltissime persone, compresi amici e parenti.

Restiamo nel '600, secolo di oscuri misteri e delitti.

Gran parte delle notizie relative a Lucida Mansi, ci sono fornite dal folklore.
Si dice, a Lucca, che questa donna abbia ucciso, dal 1628 al 1649, un numero imprecisato di mariti e
amanti.
Giulia è descritta dalla leggenda come una donna di straordinaria bellezza e amante del lusso. Preferiva amanti giovanissimi, disposti a seguirla nei suoi frequenti viaggi, dai quali nessuno faceva più ritorno. La donna, dopo l'amplesso, li gettava in un "carnaio": si trattava di una botola posta sotto l'alcova, nel cui fondo erano posizionate lance acuminate. La bella Lucida morì forse di peste nel 1649. Sembra che i Lucchesi più superstiziosi,ne vedano aggirare il fantasma intorno alla villa di Segromigno, dove aveva abitato, e che oggi è monumento nazionale.


La nobile Olimpia Mancini, nata a Roma nel 1638, e prima amante di Luigi XIV, rimase coinvolta nello "Scandalo dei veleni" ( Parigi , decennio 1670- 1680). Da un'inchiesta risultò che una certa Marie Bosse aveva fornito veleni alle mogli di membri del Parlamento, le quali volevano sbarazzarsi dei rispettivi mariti.
Il luogotenente di polizia La Reynie scoprì che si aggiungevano all'avvelenamento altri crimini: uccisioni di bambini e profanazione delle ostie consacrate.
Il caso si concluse con galera e condanne a morte.

Storia, leggenda e folklore sono gli ingredienti dei casi di Giulia Tofana e Giovanna Bonanno, entrambe palermitane.

Giulia Tofana era una cortigiana molto attraente, intelligente e scaltra nel condurre gli affari, almeno la descrivono così i resoconti dell'epoca.
A lei si deve l'invenzione dell'acqua tofana, un veleno ideale, privo di odore, sapore e colore, ottenuto da una miscela di anidride arseniosa, limatura di piombo e antimonio.
L'acqua tofana veniva venduta in piccole fiaschette di vetro alle numerosi clienti che si rivolgevano all'affascinante Giulia, per eliminare mariti, amanti e parenti.
Poche gocce, versate ogni giorno nelle bevande o nei pasti, causavano la morte nel giro di quindici giorni e rappresentavano una soluzione ideale per quelle donne che non avevano altra via di fuga da matrimoni imposti.

Bisogna considerare che nel '600, in Italia e in Europa, le donne venivano costrette a sposarsi in giovanissima età, a 14 o 15 anni e spesso anche più giovani, con uomini molto più maturi; il sentimento amoroso non era ritenuto un requisito necessario. A questo va aggiunto che l'uomo era padrone di disporre della donna a suo piacimento e legittimato ad usarle violenza.

Non conosciamo la conclusione della vicenda di Giulia Tofana, perché ad un certo punto se ne perdono le tracce. Una delle ipotesi della sua scomparsa vuole che la donna sia morta per cause naturali nel 1651, un'altra versione la vede reclusa in un convento o addirittura rinchiusa in carcere e sottoposta a tortura.

Circa un secolo dopo, durante il regno del Viceré Caracciolo, è in azione, sempre a Palermo, Giovanna Bonanno, passata alla tradizione come la "vecchia di l'acitu".
Era una vecchia mendicante che viveva di espedienti, girovagando per il quartiere della Zisa. Era definita da tutti "magara" (strega).
Un giorno si accorse che l'aceto per pidocchi, miscela di aceto e arsenico,, aveva causato un grave malore ad una bambina che, per errore, ne aveva bevuto un sorso.
Giovanna capì che quella era l'occasione giusta per dare una svolta alla sua vita e iniziò a vendere questo "liquore straordinario" a mogli infelicemente sposate.

Dai documenti processuali studiati da Salvatore Salomone Marino, risulta che la Bonanno fosse sinceramente persuasa di offrire un servizio socialmente utile a ridare serenità a molte donne.

La carriera dell'avvelenatrice fu stroncata da un banale errore: aveva venduto l'aceto ad una donna che, per vendetta, la denunciò.

Il 13 aprile 1789, la Regia Corte Capitanale di Palermo emise la sentenza definitiva: condanna a morte mediante impiccagione.
Prima di essere condotta al patibolo, due pittori la ritrassero con in mano le ampolle contenenti il veleno ed esposero il dipinto al pubblico.
Piazza Vigliena, nel cuore della città,fu allestita una forca altissima, a dimostrare che, per un reato così grave, era necessaria una grande altezza per separare l'anima dal corpo.

Il corpo della "vecchia dell'aceto" è seppellito in un cimitero, ormai non più visibile,fuori Porta di Vicari e un busto che la raffigura è custodito nel Museo Etnografico Siciliano Giuseppe Pitrè.


   




Museo Pitrè


Porta di Vicari
Busto Giovanna Bonanno








          Piera Denaro


N.d.A. Non è stato volutamente dato a questo "pezzo" un taglio scientifico, ma si è voluto solo raccontare di casi in cui la realtà storica si intreccia alla leggenda. Tali storie, che fanno parte delle nostre tradizioni, rappresentano un patrimonio culturale individuale e collettivo.

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